Shakespeare: il coraggio della tragedia

Personaggi della civiltà

Anche nel Re Lear è la delusione a prevalere. Vecchio è Re Lear, ed ha tre figlie. Tre figlie, dunque si aspetta che cedendo il regno le figlie lo rispettino e lo amino. Sbaglia. Senza potere Lear non è più neanche padre, ha figlie ma non riceve sentimento filiale. Respinto, oltraggiato, derelitto proprio da chi per natura doveva onorarlo. In Shakespeare non vi è alcuna aspettativa obbligata né dalla natura né dall’uomo. Non è naturale che una figlia ami il padre, un coniuge la sposa. Ma una figlia, sì, lo ama, Cordelia, e ne avrà pessima sorte, mentre Lear spingerà alla pazzia la sua desolazione. Shakespeare, come i greci e taluni romani, Seneca, scaglia in viso la più sciagurata e bruciante realtà, quasi per intollerabilità di una umanità che se la nasconde.

Romeo e Giulietta

Anche i giovani, i giovanissimi conoscono vivendola la tragedia. Giulietta è una ragazzina che brucia del primo amore, ed anche Romeo ha le vampe del primo amore. A vedersi si infiammano, a parlarsi fiorisce dalla loro bocca un linguaggio volatile, esaltato, così tanta passione li ispira, felicissimi nell’incontrarsi, infelicissimi nel separarsi. E’ in segreto che si amano, infatti mentre loro tendono l’uno all’altro come due venti, due correnti, due fiumi avvinti, le famiglie, i Montecchi, Romeo, i Capuleti, Giulietta, siamo nel Rinascimento veronese, confliggono serpentosamente. Sia che sia, i giovanissimi si vedono, si amano, si baciano, si congiungono. Si uniscono in nascosto matrimonio. Duelli, uccisioni, un sodale di Romeo ucciso, Romeo uccide l’uccisore, uno dei Capuleti, fugge; Giulietta viene destinata in sposa ad un giovane che lei non ama, finge di cedere, un frate, Lorenzo, che li ha uniti, escogita di addormentare Giulietta, rendendola apparentemente morta, cosi accade, il frate dà messaggio a Romeo rendendolo consapevole della morte illusoria, insieme, Romeo e Giulietta, dopo, scamperanno lontani. Ma il messaggio non raggiunge Romeo, la peste non permette l’ingresso dove è Romeo, il quale apprende della morte di Giulietta credendola morte vera. Si reca nella cripta dove è Giulietta, vi è anche il promesso sposo di Giulietta, duello, Romeo uccide questo giovane, Paride, e si uccide ritenendo morta Giulietta, che si risveglia, e scorgendo morto Romeo, si uccide. I Capuleti ed i Montecchi giungono, piangono i loro lutti, stringono una disperata ed incerta pace, e la tragedia tragicamente finisce come suole mettervi fine Shakespeare, tra la vita e la morte.

L’età elisabettiana

L’età elisabettiana prende nome da Elisabetta I, regina di Inghilterra, che mise termine ad un periodo di guerre aprendone un altro. L’Inghilterra veniva da guerre secolari, in se stessa, con i paesi prossimi, Scozia, Irlanda, con la Francia, quindi con la Spagna. Guerre anche di potenti famiglie, chiuse con la vittoria dei Tudor, ed il Re Enrico VIII, del quale Elisabetta era figlia, nata da Anna Bolena. Enrico stabilì la religione anglicana, separandosi dal cattolicesimo, causa di future guerre. Delitti, tradimenti, popoli sterminati, trame familiari impietose. I poeti avevano materia, in specie i teatranti, ed infatti i drammaturghi diedero rappresentazione di quei tempi, fissando lo sguardo nell’orrore ma non accecandosi, anzi rappresentandolo, e con radicale espressione che non temeva di mettere in scena il peggior modo di vivere dell’uomo, scoprendo vermi e scorpioni sotto il manto dei Signori e dei popoli. Dio, l’Onore, la Pietà, la Giustizia sono battuti, mentre fanno festa il Potere, la Guerra, l’Astuzia. Persino il Diavolo ha paura dell’Uomo, e la Donna fronteggia l’Uomo pareggiandolo nella avidità e nei sotterfugi. Non fosse esistito William Shakespeare avremmo, in ogni caso, autori tragici da considerare e testi da vedere ed ascoltare, del resto in scena ancora.

Ma William Shakespeare oscura tutti e insieme li fa splendere tutti. Shakespeare, immerso nei tempi crudeli, anche passati, ebbe lo sguardo che meglio ne vide e ne resse gli eventi e li trascinò in testi da rappresentare, addirittura accrescendoli di orrore, e in un linguaggio che mai dice senza una coloritura, un aggettivo sorprendente, una considerazione sbalorditiva, e con ogni variazione delle passioni, a getti ondosi, in una atmosfera che sembra di un sotterraneo verso il patibolo. Gli splendori del vivere hanno in Shakespeare direzione alla morte, punto di arrivo di ogni sua narrazione teatrale, evento naturale o causata dall’uomo che sia. E tuttavia in Shakespeare raramente vi è rifiuto della vita anche se la vita è una botte piena all’orlo di male e dolore. L’uomo shakespeariano nel male e nel dolore ci guazza, e li beve, soffoca e fa soffocare. Il male, il dolore sono, in Shakespeare, ingredienti dell’esistenza lungo il percorso sulla via della morte. Ma la strada è quella della vita, dunque in ogni caso vivere lungo la strada della vita, vivendola senza risparmio di bene e di male. Il solo “peccato” che Shakespeare riconosce è la meschinità delle forze. Questo affascina in quell’epoca, e non soltanto in quella, il dar fuori le nostre capacità allo spasimo, in gara vicendevole, dunque tragicamente, essendo la tragedia il sapersi individuo, unico, senza ripetizione, moltiplicazioni, senza eternità d’anima, piuttosto il saper di morire, per natura, ed il poter soccombere agli altri, nella società. Shakespeare odiava la morte naturale e non voleva il silenzio sul nostro costituire individui mortali. Quindi la tragedia. Contro la morte naturale, contro la morte sociale, per il dominio e contro il dominio. Il suo altisonante linguaggio, l’estrema presenza dei conflitti nella sua opera, provengono dal sapersi individui, mortali ed in gara con individui che vorrebbero vivere in grande. Questo esaltava la creatività, quando sul campo si misurano individui che sanno di essere individui di rango o vogliono esserlo, non carne umana all’ammasso famelica di mediocrità. Ciascuno trae la maggior potenza che reclina se non vi è gara di superiorità al punto che non vale la pena esigere da sé quando la società non la esige da noi. Ma al tempo di Shakespeare il dolore, il male esistevano, come sempre, ma l’uomo li viveva alla grande, senza rifugiarsi nell’ottimismo o nel non sentire. In quel tempo l’uomo voleva vivere non difendersi dalla vita rannicchiandosi nella speranza o nel non vedere e non sentire. Il coraggio della tragedia, allora, per amore della vita. Vive fino in fondo chi sente fino in fondo. Paradossalmente è l’uomo tragico che se patisce gode anche all’estremo la vita. Senza tragedia non vi è gioia.

Aggiornato il 07 dicembre 2021 alle ore 11:44