Dal firmamento alla cantina buia

La stella cadente della cultura italiana

L’odierno mondo italiano della cultura – inteso nel senso più lato, ivi incluse la cultura umanistica e la scienza – è diventato un player marginale sulla scena mondiale della cultura e della scienza. Eppure, durante il Rinascimento, l’Italia primeggiava nel mondo e rappresentava il faro della cultura europea. Per parafrasare l’archeologo e documentarista Valerio Massimo Manfredi, il Rinascimento italiano aveva contrapposto alla miseria e alla meschinità umane il culto della bellezza e il perseguimento delle doti dell’intelligenza. Purtroppo, la cattiva politica e i mancati investimenti a lungo termine da parte della classe dirigente hanno condotto l’Italia – i dati che seguono parlano chiaro – verso una profonda crisi: dall’essere faro della produzione culturale mondiale nel Quattrocento e nel Cinquecento all’essere produttore odierno di terz’ordine. Dal Rinascimento verso un Nuovo Medioevo. Dal firmamento alla cantina buia.

1.1 I pronipoti di Galileo

Un confronto con altri Paesi occidentali simili per collocazione storica e per numero di abitanti rivela il grado di relativo distacco anzitutto nelle scienze e nella medicina: il numero di premi Nobel vinti dall’Italia (14) nell’ultimo secolo nelle discipline scientifiche è di molto inferiore rispetto a Francia (37), Germania (90) e Regno Unito (97). Al contempo, si osserva che, degli stessi Nobel vinti dagli italiani, oltre la metà sono stati conquistati con ricerche fatte all’estero, come ad esempio quelle più note di Marconi, Fermi, Levi Montalcini, Modigliani e Rubbia. A molti di loro fu bloccato l’accesso alla carriera accademica in Italia: non solo non ricevettero incoraggiamenti, ma furono addirittura messi loro i bastoni fra le ruote e dovettero quindi andare a lavorare all’estero. Suona familiare? Oggi quei relativamente pochi cervelli che vi sono, fuggono nella speranza di raggiungere ambienti più sani sotto i profili della remunerazione economica, del riconoscimento sociale, della strumentazione disponibile, dei fondi a disposizione e, non per ultimo, della libertà di ricerca. Tale allettante libertà si traduce non solo nella fuga dall’Italia – abbassando ulteriormente, di conseguenza, la qualità media della nostra accademia – ma anche dal dominio dei nostri baroni.

Giovanna Zincone sulla Stampa del 19 agosto 2012 riferisce che “Secondo il centro studi “La fuga dei talenti”, il 70 per cento degli oltre 60mila giovani che lasciano ogni anno l’Italia è laureato. (…) Qualche anno or sono, una ricerca finanziata dalla Commissione europea aveva messo in evidenza il fatto che non bastano incentivi monetari o fiscali per evitare fughe di cervelli e invogliare rientri: il più efficace rimedio all’esodo è costituito da centri di eccellenza, dove i ricercatori possono lavorare con profitto, in ambienti che si confrontano con i migliori standard”. Questo nel mondo scientifico. L’ambito della matematica, a sua volta, vede la seguente distribuzione della Medaglia Fields, assegnata a più candidati ogni quattro anni: Italia (2), Francia (12), Gran Bretagna (7), Germania (2). Altri riconoscimenti internazionali per la matematica, dal Premio Abel al Premio Wolf, danno risultati altrettanto deludenti: complessivamente, un solo italiano premiato (Ennio De Giorgi), su oltre 150 premi assegnati. Risultato ancora più povero in merito al Premio Gödel, riconoscimento per lavori originali e straordinari in informatica teorica: nessun italiano premiato.

1.2 Pane e poesia

Nell’ambito letterario, la patria dei santi, poeti e navigatori avrebbe dovuto raggiungere un risultato riguardevole e invece il confronto circa il numero di premi Nobel per la Letteratura si rivela comunque una modesta delusione: Italia (6), Francia (16), Germania (10), Regno Unito (14). Risultato confortante invece nell’architettura dove il Pritzker Prize, su 48 premiati dal 1979 (ex aequo in alcuni anni), è stato assegnato 2 volte ad italiani (Aldo Rossi e Renzo Piano) e 3 volte ad inglesi. Gli altri sono stati distribuiti in tutto il mondo. Ne emerge, nell’arco d’un secolo, un inquietante quadro d’insieme: un medagliere – oggettivo e quantificabile – molto povero (relativamente agli altri) sul piano scientifico e matematico, e su quello umanistico, uno modesto. Quasi a voler confermare che chi – come Giovanni Gentile e Benedetto Croce – desiderava mettere al primo posto la poesia trascurando il pane, alla fine ha avuto poco dell’una e ancor meno dell’altro: poca cultura umanistica e ancor meno competenza scientifica, tecnologica ed industriale. Comunque, non va dimenticato come la competenza scientifica e tecnologica ed industriale si traduca in una capacità che, mediante posti di lavoro, sfami di pane il Paese e crei benessere.

1.3 La cultura italiana decaduta

L’ipotesi qui proposta è che il conformismo sia da ravvisare come motivo propulsore del declino e della vigente mediocrità; ossia, che il timore indotto dalla repressione, a partire da quella controriformista, abbia costretto le doti dell’intelligenza ad adattarsi in modo darwiniano alle nuove realtà. Un’evoluzione nel modo di porsi nei confronti del Potere che – almeno storicamente ma, in grande probabilità, anche nella nostra realtà politica odierna – risulta strutturalmente in conflitto con la verità. Infatti, in tali realtà viene da chiedersi: conviene criticare o esprimere dissenso se poi ci sono in serbo (per i più docili) gli arresti domiciliari nel Seicento e, tre secoli dopo, il confino per i reati di opinione (Luttazzi, Biagi, Santoro)? Senza dimenticare il potere dissuasivo, nei secoli, della scomunica per i Cattolici credenti o dell’allontanamento dall’Università previsto per i recalcitranti e i refrattari durante il regime fascista.

Che molto tempo fa sia iniziato pertanto il declino e che esso sia precipitato diventando la coda di una parabola calante sarebbe comunque difficile da negare eppure, paradossalmente, il decadimento della cultura italiana – forse la più ammirata in tutto il mondo civilizzato – inizia quasi in contemporanea all’avvio della Controriforma, alla conclusione del suo apogeo rinascimentale, quando si sarebbe potuto paragonarla ad un sontuoso abito principesco. Dopo quello stato di grazia, durato circa due secoli, quando le arti e le scienze avevano la possibilità di esprimersi pienamente, la mise nobiliare passa repentinamente e ignobilmente attraverso il rogo di Giordano Bruno e l’abiura di Galileo, bruciacchiandosi e sfilacciandosi sempre più velocemente nel corso dei secoli per giungere ai nostri tempi nel suo stato attuale: una livrea tristemente consunta.

Ora si profila un periodo buio e oscurantista e non si intravedono all’orizzonte possibili miglioramenti, dato che l’attuale sistema di formazione – scuola e Università, sul quale poggia lo sviluppo futuro delle arti e delle scienze – è così malconcio da non lasciar sperare in nulla di buono. L’ultimo secolo testimonia l’accelerazione più decisa del processo di disfacimento alla cui base più recente poggiano in maniera perniciosa gli intrecci fra il pensiero filosofico e culturale di Benedetto Croce e quello di Giovanni Gentile. Pur essendo i due uomini contrapposti politicamente, gli altezzosi disprezzi dei due massimi esponenti del neoidealismo italiano nei confronti della scienza condizionarono la politica culturale del primo scorcio del Novecento e condussero il Paese ad architettare un sistema scolastico che avrebbe osteggiato (e osteggia tuttora) tutto quanto non fosse cultura nel senso stretto della parola (storia, arte, filosofia, filologia) assegnando quindi alla scienza e alla matematica un ruolo secondario. Promuovendo al contempo, a maggior ragione con l’avvento del fascismo, una cultura conformistica scarsamente disposta a sviluppare il senso critico. E anche se le varie stratificazioni di più culture nei secoli e nei millenni fanno sì che l’Italia sia indiscutibilmente il depositario del patrimonio storico/culturale più ricco del mondo, al contempo la sua attuale produzione culturale e scientifica – a partire, ovverosia, dal primo Novecento – sfigura, numeri alla mano, non di poco quando viene confrontata con quella di altri importanti Paesi.

Nonostante tutto, rimane la magnifica sedimentazione del passato, il patrimonio accumulato nei secoli, ma questo – che include arte, monumenti, biblioteche storiche, libri rari, siti archeologici, territori e paesaggi – viene insufficientemente curato, se non dilapidato. Il sistematico disfacimento richiama epoche lontane, con la cultura assalita e fagocitata dai barbari.

Più di ogni altra cosa però, tale sfacelo fa venire in mente un’altra epoca ancora, ossia la fine del Quattrocento fiorentino perché, col suo voler mandare in fumo risorse inestimabili quali i beni di cui prima, la nostra era si presenta come una versione post-moderna del falò delle vanità senza la spinta fanatica, integralista e dogmatica di un Savonarola, che in Piazza della Signoria mandò in fumo anch’egli risorse inestimabili facendo letteralmente bruciare, com’è risaputo, libri, documenti, tele ed abiti sontuosi. Ma non per questo motivo l’attuale impulso distruttivo risulta meno efficace, vista l’immensa aggressione operata a danno dei beni culturali più abbondanti e splendidi del pianeta. Trattasi del Paese ormai vetusto e sfiancato che conferma involontariamente la tesi spengleriana? In tale scenario, la volontà inconscia e autodistruttiva della società italiana si collocherebbe nel tramonto della moribonda cultura occidentale preconizzata da Oswald Spengler.

Cosicché, i discendenti delle stirpi più antiche della cultura europea, quella italica insieme alla sua progenitrice greca, preparerebbero in maniera patologica le proprie rispettive fini, non solo sul piano della finanza internazionale ma anche su quello della produzione culturale. Una visione in cui le élite portano stancamente avanti il proprio oberante fardello: la decadente cultura (nell’accezione questa volta, antropologica) del loro lento ed inevitabile declino. Una cultura senescente, morbosa e pertanto senza vitalità. In breve, un Eros che, scoprendo la propria spinta vitale assopitasi, si lascia avvinghiare e ammorbare nell’abbraccio mortale di Thanatos.

1.4 Disgregazione e depauperamento

Contemporaneamente alla disgregazione e al depauperamento del magnifico abito (sempre inteso come capacità di produrre nuova cultura, soprattutto scientifica), il suo custode putativo – il decaduto nobiluomo accademico – si è trasformato in un barone feudatario interessato soprattutto al potere, quasi per nulla alla cultura e per niente affatto all’etica. Motivo per il quale egli agisce all’interno di una corporazione che difende i propri privilegi così da scansare il confronto con l’estero, rifugiandosi nel suo recinto universitario provinciale ed angusto, luogo comunque privilegiato, dove la prepotenza del barone muove i suoi vari signorotti ad elargire insieme a lui inchini nei confronti di chi detiene più potere mentre agisce con scarsa signorilità verso chi ne ha meno. Di noblesse oblige, nessuna traccia. Pertanto, il barone, autoreferenziale, insiste autarchicamente nel voler maltrattare l’outsider.

Come, ad esempio, gli insegnanti lettori di madrelingua, perlopiù stranieri (la maggioranza dei quali comunque naturalizzati), portatori di altre lingue e culture. Poliglotti, colti e cosmopoliti. Che hanno studiato nei migliori Atenei del mondo e ciononostante (o forse proprio per questo) trattati dalla classe docente italiana alla maniera di garzoni di bottega. Tali modi di fare della classe docente, potenziati e legittimati dalla classe politica, hanno fatto sì che il lettore di madrelingua straniera precipitasse rovinosamente verso la cantina buia della disperazione lavorativa.

1.5 Scuola e Università

E mentre il quadro in rapporto all’ultimo scorcio di centoquindici anni (il Nobel in particolare) fornisce dati poco confortanti, l’odierna realtà non lenisce affatto le ferite secolari. Anzi. L’evidente decadimento culturale si palesa anche mediante i dati concreti delle graduatorie dei migliori Atenei al mondo. Infatti, gli atenei italiani non fanno una bella figura nelle graduatorie internazionali degli 8 ranking più diffusi e nessuno di essi figura nell’elenco dei primi 150 della graduatoria 2022 più autorevole (Times Higher Education World University Rankings). Intanto, nel mondo della scuola il programma internazionale Pisa, che valuta le competenze scolastiche dei 15enni, vede gli studenti italiani che nelle scienze, in matematica e nella prova di lettura e comprensione del testo, in italiano, si posizionano sempre a metà classifica.

Tale collocamento desolante si comprende meglio se si tengono presenti le parole di Victor Uckmar, sul Corriere della Sera del 21 giugno 2011 sulla scorta dei suoi cinquant’anni di insegnamento nell’Università italiana: “… nelle classifiche internazionali le università italiane (tranne poche e solo quelle con accesso selezionato) sono fra le peggiori: e andranno peggiorando anche per effetto che nei concorsi (…) sui criteri di meritocrazie, spesso prevalgono i collegamenti familiari, di ‘talamo’ e di affari”. Rincara la dose Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera del 13 giugno 2012: “Con 3,3 stranieri ogni 100 iscritti contro i 4,1 degli atenei ellenici, l’università italiana è sempre più in basso nelle classifiche mondiali. E dove gli studenti accorrono, come all’Imt di Lucca, mancano i docenti forestieri: porte aperte ai terzini, ai centravanti e ai portieri ma non ai professori”. Intanto, il Financial Times ha definito l’Italia un’economia sclerotica: un Paese autocratico dove l’assenza di meritocrazia, insieme ad una casta auto-referenziale ed inamovibile, fa pensare più al Nord Africa, dove in un recente passato sono stati deposti dittatori, piuttosto che ad uno dei partner fondatori dell’Ue.

1.6. Il fallimento della politica linguistica nella scuola e nell’Università

Tale fallimento viene denunciato non solamente dai dati succitati ma anche da un’autorevole fonte italiana, ossia la Conferenza dei presidi delle Facoltà di lingue e letterature straniere allargata ai presidenti dei corsi di studio in lingue presso le Facoltà di lettere e filosofia, che nel documento intitolato “Emergenza lingue straniere”, afferma in merito a questa disperata situazione: “L’Italia figura costantemente agli ultimi posti tra i Paesi europei quanto a competenza reale nelle lingue straniere da parte dei propri cittadini. Ciò è avvertito dalle rilevazioni internazionali come dalla percezione diffusa di chiunque si muova a livello di contatti internazionali.”

In merito ai dati Pisa di cui prima, oltre ai risultati dei 15enni in scienze, matematica e lingua italiana, vi è la disfatta totale nell’apprendimento delle lingue straniere da parte degli studenti della scuola superiore (nel suo insieme). Non si possono più ignorare questi problemi perché avranno conseguenze gravissime sul futuro dei giovani e sullo sviluppo del Paese. Contemporaneamente, gli adulti non possono vantare una performance migliore. Afferma Cristina Lacava in “La zuppa inglese, l’Italia cinque anni dopo la riforma” sul sito del Corriere: “D’altra parte, lo stesso adulto non sta messo meglio. Gli italiani con l’inglese non ci azzeccano: la classifica di Eurobarometro sulla conoscenza delle lingue nei paesi Ue, nel 2008, ci mette in coda”.

Ma di chi è la colpa? Della scuola e dell’Università italiane o degli italiani stessi? Sebbene la popolazione sia grossomodo consapevole del problema, esiste contemporaneamente una diffusa percezione nel Paese che siano gli italiani stessi ad essere incapaci di imparare le lingue straniere in modo soddisfacente. Tale percezione, pur essendo priva di fondamento scientifico, conduce il Paese a considerare erroneamente che il problema nasca per entrambi i motivi, ossia che la scuola insegni superficialmente la lingua straniera e che gli italiani non siano portati ad impararla. Così, è chiaro che, dalla relativa paucità dei Premi Nobel, alla scuola e all’Università che arrancano, l’Italia si trova in una posizione di enorme svantaggio rispetto ai suoi competitori. Intanto, solo per fare un esempio, la miopia dirigenziale si manifesta anche tramite il piano che prevede l’abolizione, dall’anno scolastico prossimo, dell’esercizio del tema scritto in classe. E che alla Camera e in Senato i laureati rappresentino solo il 70 per cento del totale ci pone l’interrogativo: può la politica intervenire per salvare la situazione? Poiché mancano consapevolezza, interesse e competenze, è sconsigliato sperare troppo.

Aggiornato il 02 marzo 2022 alle ore 13:26