“C’è ancora domani”, ma anche dopodomani

Quando il tritolo fa del bene alla causa della Resistenza (delle donne maltrattate). Una morale sorprendente, che poteva accadere solo con una regia brillante e innovativa come quella di Paola Cortellesi, alla sua opera prima come regista e protagonista di “C’è ancora domani”.

Da chiosare con l’aggiunta di “ma anche dopodomani”, perché certe grandissime conquiste socio-giuridiche (il divorzio, in particolare, o le leggi sulle violenze in famiglia e lo stalking) arriveranno soltanto molto più tardi, rispetto agli eventi narrati.

Innanzitutto, elenchiamo i pilastri di che cosa in realtà è veramente uscito dalla lampada di Aladino di una pregevole regia tutta al femminile, in cui i personaggi al maschile ribollono nella pentolaccia degli umori avvelenati di un regime patriarcale post-fascista, violento, ipocrita e a tratti sfacciatamente delinquenziale.

E non poteva essere altrimenti. La storia, infatti, è ambientata nel primissimo Secondo dopoguerra (da qui la scelta del bianco e nero alla Magnani), che succede a due guerre mondiali combattute esclusivamente da maschi, in cui le donne hanno solo dovuto subire il destino nero di madri di soldati uccisi, di donne private per sempre dei loro mariti, fratelli e congiunti, alle quali è stato affidato l’immane carico di sostenere le famiglie, la produzione bellica, l’educazione dei figli, la cura degli anziani e dei malati.

Punto primo: la moglie maltrattata e abusata, madre di una ragazza in età da marito e di due pestiferi maschi più piccoli.

Secondo: la precaria condizione igienico-abitativa dei ceti popolari.

Le scene da interno sono ambientate in una casa buia e squallida del sottoscala di un quartiere popolare, dove i tre figli dormono in unica stanza, con i due ragazzini che si dividono il letto secondo lo schema capo-a-piedi, mentre l’anziano Ottorino (Giorgio Colangeli), padre del marito violento, e trucido quanto e più di suo figlio, occupa una stanza tutta per sé, allettato da anni e curato dalla nuora Delia (Paola Cortellesi), moglie maltrattata di Ivano (Valerio Mastrandrea, odioso da morire nella parte).

All’esterno, invece, si apre il grande spazio collettivo del cortile interno del complesso di squallide case popolari, in cui scorre la vita quotidiana con i suoi canoni fissi e immutabili: ragazzini che giocano al pallone o si ricorrono; donne sedute a semicerchio che svolgono lavori casalinghi, cumulando nel gineceo conoscenze socio-familiari di prima mano sul circondario, mentre le finestre fanno da balconata per le sceneggiate teatrali che riguardano le solite liti da comari. Delia le frequenta tutte di sfuggita, vergognandosi del suo dramma familiare che la vede vittima impotente delle ripetute violenze domestiche, ricevute per aver commesso anche piccole sbavature nella sua condizione di serva sciocca e inutile.

Il terzo pilastro è la desolante assenza di solidarietà: tutti sanno, ma nessuno denuncia o osa intervenire, per asciugare una volta per tutte il pianto disperato di Delia che, a sua volta, è costretta a portare a casa i soldi facendo decine di chilometri ogni giorno per fare punture agli anziani, lavare panni dei ricchi e aggiustare biancheria di chi non può spendere per acquistare indumenti intimi nuovi.

E la regia non ci risparmia proprio nulla (una sorta di riedizione del film “Brutti, sporchi e cattivi”) delle atmosfere plumbee di borgata, facendo prudere le mani di chi è costretto ad assistere a quelle violenze indecenti e ignobili, che la raffinata sensibilità della Cortellesi nasconde dietro danze rituali, scene post-factum, immagini di lividi estesi e muti, come se volesse proteggere l’animo di chi la osserva.

A Delia, la pietas divina riserva solo un piccolo conforto nella grande amicizia sincera di Marisa (Emanuela Fanelli) che sa, aiuta e non tace, anche se non può e non sa arrivare alla denuncia delle violenze sistematicamente subite dalla sua amica del cuore, per via dei figli piccoli di lei, anche se è pronta ad assecondare in tutti i modi eventuali infedeltà coniugali di Delia, in modo da rendere pari e patta a colui che non fa nemmeno finta di nascondere le sue avventure da bordello.

Ultimo pilastro: la forbice tra ricchi e poveri, dove spesso i primi, in quel buio 1946, lo sono diventati grazie ai grandi profitti conseguiti con la borsa nera, speculando sulla fame di milioni di sventurati.

Tutto nero, allora? Non proprio. Anzi, c’è una luce vivissima in fondo a quell’oscuro tunnel del degrado della violenza commessa sui remissivi e gli umili: il Sol dell’Avvenir di una Democrazia nascente. 

Voto 9/10

Aggiornato il 09 novembre 2023 alle ore 08:32