Premessa doverosa per schivarmi l’accusa di panegirista che potrebbe lanciarmi qualche travagliato statolatra o esaltato interventista.

Il nuovo presidente designato di Confindustria, Carlo Bonomi, sarà insediato ufficialmente il 20 maggio prossimo. Lui è cremasco, installato nel cuore della Lombardia avendone guidato gl’industriali. Io sono campano. Non siamo parenti, neppure alla lontana. Neppure l’ho mai incontrato e conosciuto. Per me è stato a lungo soltanto un nome d’imprenditore letto sui giornali. Non sono mai stato un uomo d’affari e non ne ho mai fatti. Non ho nulla da chiedergli né da aspettarmene.

Insomma, tra lui e me non c’è ponte, neanche d’aria. Dunque posso manifestare in totale libertà e gratuità la soddisfazione d’italiano appagato di vederlo al vertice di Confindustria. Perché, mi chiederete? È presto detto. Egli è l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto. Una coincidenza rara, sebbene non unica, in politica. Sì, per fronteggiare la drammatica temperie del coronavirus, nella quale preservare l’economia dal dissesto è altrettanto vitale di salvaguardare la vita umana dalla pandemia, un uomo come Carlo Bonomi può rivelarsi decisivo, come sarebbe stata a suo tempo la nomina di ministri all’altezza che purtroppo mancano.

Certo, non conoscendolo personalmente né conoscendone la biografia privata, il mio lusinghiero giudizio politico è basato su ciò che gli ho sentito dire negli ultimi anni o da ultimo dopo l’investitura. Ma tanto, al momento, basta. Egli crede nell’impresa: “Essere imprenditori – ha detto – è avere il senso del rischio, guardare a nuovi mercati, ricercare e attuare maniacalmente l’innovazione, perseguire la crescita con tutti i nostri collaboratori”; nella “cooperazione pubblico-privato”, purché nel contesto dell’economia libera e del mercato di concorrenza; nella società aperta alla visione internazionale; nel mondo produttivo affrancato da “interventi figli di contrattazioni politiche riservate”; nel rispetto della legge e nel lavoro onesto: “E, a proposito di lavoro – ha affermato – noi non siamo quelli dei campi, che sfruttano col caporalato italiani e stranieri. Siamo stufi di essere confusi con chi lucra sulla fame. Le leggi ci sono. Lo Stato intervenga, li metta in galera. Quelli non sono imprenditori. Noi con i delinquenti non abbiamo nulla a che fare”.

Egli respinge la politica che non soppesa i costi e i benefici. Auspica il confronto tra le parti, purché le misure da adottare “tengano sempre conto delle conseguenze”. Ed è convinto che la tragica emergenza stia offrendo anche un’opportunità.

Quella – sono parole sue – di rilanciare il Paese eliminando una volta per tutte le zavorre che ci hanno frenato negli ultimi vent’anni”.

Del nuovo presidente di Confindustria apprezzo ieri come oggi anche il modo d’esprimersi: “Prima di tutto – ancora parole sue – si tratta di recuperare un linguaggio più adeguato. Perché è il linguaggio compulsivo della comunicazione pubblica, il primo elemento che alimenta le paure per sfruttarle a fini di consenso”. 

Egli usa il linguaggio come prescrive il Vangelo: “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal Maligno”.

Una grande qualità. L’Italia ha infatti estremo bisogno anche di questo: chiarezza, nettezza, brevità nel porre problemi ed esporre soluzioni, quando esistono, specialmente nella tragedia che l’attanaglia, dove chi sa nondimeno sproloquia e chi non sa sdottoreggia tuttavia, mentre il popolo rimane attonito e impaurito nella logomachia generale.

Aggiornato il 01 maggio 2020 alle ore 13:15