Consigli non richiesti ai governanti

In modo molto prevedibile è ripresa la “paura del contagio” e certamente non voglio entrare nel merito politico della gestione dello stesso. Il grande dilemma di oggi: morire di Covid-19 o morire di economia, cioè di fame. La salute dei cittadini è naturalmente un aspetto prioritario ma va trovato un equilibrio tra la salute e l’economia, che non è certamente semplice, senza considerare le grandi sfide internazionali ed i rapporti in continua mutazione tra Usa e Cina. Sono circa 10 anni che la nostra economia soffre sia per problematiche strutturali mai risolte, che per eventi endogeni, come la crisi bancaria del 2008 e di conseguenza del debito del 2011. Vorrei ricordare che oggi il livello di Pil reale non ha ancora ancora stato raggiunto il livello del 2007 dove però il rapporto debito/Pil era del 105 per cento circa raggiungendo il 133 per cento nel 2019. Ci furono prima gli interventi della Bce (Banca centrale europea) per aiutare il sistema Ue e gli egoismi degli Stati divisi tra falchi (rigoristi e puri) e colombe (keynesiani e spendaccioni). La Bce grazie alle clausole di salvaguardia supportò gli Stati europei ma nonostante ciò si parlò della “coperta toppo corta”. Oggi abbiamo un Europa i cui gli eventi storici hanno costretto i miopi governanti di oggi ad avere una visione dell’insieme e strategica del futuro: per la prima volta si è parlato di bilancio europeo, di debito europeo, di aiuti europei. Una visione sino ad ora era stata completamente assente se non tramite interventi in extremis per evitare la rottura del sistema.

Tornando ai numeri, il Fmi (Fondo monetario internazionale) aveva migliorato le stime per l’Italia per il 2020, tagliando quelle per il 2021. Per l’economia nazionale era attesa quest’anno una contrazione del 8,6 per cento, in miglioramento rispetto al -12,8 per cento previsto in giugno. Il prossimo anno il Pil è invece stimato in rialzo del 5,2 per cento, ovvero l’1,1 per cento in meno rispetto alle stime di giugno. La Nota di aggiornamento al Def (Documento di finanza pubblica) stilata dal Governo di Giuseppe Conte prevede -9 per cento quest’anno e +6 per cento il prossimo. Non sembrano attenuarsi gli effetti del Covid sulla disoccupazione in Italia per la quale il Fmi prevede un livello pari all’11 per cento nel 2020, in aumento rispetto al 9,9 per cento del 2019. Sul fronte del disavanzo le stime sono per un ulteriore incremento nel 2020 al 165,8 per cento del Pil dal 134,8 per cento del 2019, a fronte di una flessione al 158,3 per cento nel 2021 e al 152,6 per cento nel 2025.

Ad oggi i numeri non tornano. Le previsioni alla base del Def prevedevano come ipotesi di base un costante rimbalzo dell’economia a partire da giugno 2019.Come era prevedibile con la semplice regola della “prudenza” di cui parla il nostro codice civile e con cui si redigono i bilanci e tutte le previsioni, il ritorno prepotente del contagio condizionerà le stime dell’ultimo trimestre e molto probabilmente quelle reali saranno molto più vicine a quelle del Fmi. Cosa succederà tra 15 mesi con un debito/Pil al 170 per cento circa e con un Pil in caduta di circa l’11 per cento nel 2020 ed un rimbalzo del 6 per cento per il 2021? Cosa succederà In un Paese stremato in cui le tensioni sociali potrebbero sfociare in qualcosa di molto più drammatico ovviamente da evitare, torneremo a parlare di un paese in stagnazione? Torneremo ad essere un Paese con la coperta corta e con le famose clausole di salvaguardia impossibilitato ed ingessato in tutte le politiche fiscali ed economiche? Se questi sono i dati, e purtroppo sono impietosi, la cosa peggiore che può fare un Governo è nasconderli o far finta che tutto va bene con lo slogan ormai non più credibile “noi ne usciremo”. Giustamente, da una crisi si possono avere due soluzioni: piangersi addosso facendo le vittime e dare la responsabilità ad altri o cogliere l’opportunità per un rinnovamento della nostra burocrazia e della nostra economia.

Molti economisti si stanno cimentando su tale problema. Basta vedere lo studio di Banca Intesa guidato da Gregorio De Felice; le soluzioni proposte da Francesco Giavazzi ed Alberto Alesina, da Carlo Cottarelli, da Tommaso Padoa Schioppa ed in ultimo le osservazioni della stessa Banca d’Italia: il problema è complesso in cui si intrecciano variabili dipendenti come il saldo primario, il livello dei tasi di interesse reale e nominale, l’impatto dell’inflazione sino ad arrivare ad ipotizzare interventi non sul flusso ma sullo stock del debito come le privatizzazioni; le vendite dei beni dello stato oppure la ristrutturazione del debito o altro. Al di là delle diverse modalità su come affrontare i numeri post Covid-19 tutti non possiamo prescindere dal fatto che la situazione sociale ed economica del Paese non permette più politiche di austerità come l’aumento delle tasse o la riduzione della spesa corrente. Vista l’entità dei numeri, la sola inflazione non è più sufficiente per una sostanziale riduzione del debito e la stessa dovrebbe essere talmente alta che sarebbe possibile solo con l’uscita dall’euro e successiva svalutazione: tale via non è certo auspicabile poiché porterebbe altri enormi squilibri. La crescita reale tenendo fisso il numeratore e cioè il debito è l’unica strada percorribile per la sostenibilità del Paese senza operazioni di natura straordinaria per la riduzione del debito.

Nonostante il Recovery fund e le azioni della Bce che ad oggi detiene circa il 20 per cento del debito italiano, l’unica soluzione che vedo è che ci sia un riscatto da parte della nostra classe dirigente che comprenda che la soluzione non potrà non essere che in una “maggiore e diversa Europa”: si dovrà andare avanti con l’unione bancaria, realizzare un fisco europeo e una nuova “Costituzione europea”. Questo periodo e questa futura crisi del debito nessun Paese europeo la potrà superare da solo. Questa è una battaglia che si si vince solo se uniti, solo se l’Europa e i suoi governanti sapranno fare sistema. Il Recovery fund (fondi europei per il rilancio economico) senza la Bce che mantenga i tassi bassi e faccia operazione di monetizzazione del debito non sarà sufficiente. I numeri non torneranno se non ci concentreremo su una struttura europea diversa, in cui non esista più la “decisione unanime” che blocca qualsiasi riforma seria; un vero bilancio europeo; una governance che dia più peso al “Parlamento europeo” perché eletto dal popolo e non alla “Commissione europea” espressione degli Stati e dei governi ed in ultimo, ma non meno importante, l’inserimento in Costituzione europea di una tradizione storica-culturale di origine “cristiana”.

Se ci lasceremo trasportare da beghe domestiche o solo dai freddi numeri economici perderemo: nonostante le grandi agenzia di rating si dicono non preoccupate per l’esposizione italiana e poi in parte francese, non saremo in grado di rientrare nei parametri europei se non con una crescita reale del 2 per cento per i prossimi 15 anni. Io non lo ritengo fattibile. Ci vuole visione, ci vuole strategia, si deve pensare all’oggi ma immaginando il futuro. Ma il vero problema non è l’Europa, dove queste sensibilità e consapevolezze stanno emergendo in modo chiaro, ma nella capacità della nostra classe politica (non uso classe dirigente perché non lo è) a superare furbizie elettorali, egoismi, personalismi e beghe da cortile per dare un futuro al suo popolo. Tutto qui.

Aggiornato il 02 novembre 2020 alle ore 11:18