Il disordine fiscale: l’esempio della tassazione sul tabacco

La legge di bilancio presentata dal governo Meloni ha un merito: tenta di coniugare i legittimi obiettivi politici della maggioranza con i vincoli di bilancio. Così, non contiene misure plurimiliardarie e, anzi, cerca di mettere la mordacchia a quei provvedimenti – dal superbonus 110 per cento al reddito di cittadinanza – che determinano oneri eccessivi per l’erario o che rischiano di produrre un disincentivo al lavoro. Tuttavia, per far tornare i conti, si ricorre a qualche trucco: per esempio si mette mano ad alcuni tradizionali “bancomat” del fisco. Un esempio è l’incremento delle accise sui prodotti a base di nicotina. Come sappiamo bene, lo stesso Stato che fa di tutto per dissuaderci dal fumare poi lucra sul consumo di sigarette: posizione complicata, giustificata con la complessa aritmetica del servizio sanitario nazionale, ma controversa agli occhi di molti. È vero che le imposte sono un mezzo decisamente più efficace per disincentivare i consumi rispetto ad altre iniziative pure spettacolari come il divieto di esposizione dei pacchetti di sigarette o l’obbligo di un pacchetto “generico”. Purtroppo però l’idea che dal momento che a essere tassato è un vizio lo si può spremere senza ritegno finisce per giustificare approcci scarsamente consapevoli di quei problemi che riguardano le imposte sul tabacco esattamente come tutte le altre.

Attualmente, le accise italiane sono tra le più alte in Europa, e si collocano a un livello ben superiore ai minimi stabiliti a livello europeo (anche tenendo conto degli incrementi proposti nell’ambito della revisione della direttiva sulla tassazione del tabacco). Inoltre, le imposte sono differenziate tra le diverse tipologie di prodotti, in modo tale da riflettere la diversa dannosità derivante dal loro utilizzo. Non solo: la disciplina in vigore prevede un percorso di graduale incremento, noto ex ante a consumatori e produttori. Per effetto degli aumenti già programmati, nel 2023 era atteso un maggior gettito di circa 100 milioni (a carico soprattutto del tabacco riscaldato). Adesso, i rincari complessivi salgono a 180 milioni di euro, prevalentemente a carico delle sigarette tradizionali. Oltretutto, gli aumenti non sono in alcun modo legati a una qualche stima del danno, ma colpiscono le sigarette in modo differenziato in ragione delle fasce di prezzo.

Insomma: la manovra mette mano, per l’ennesima volta, a un settore che aveva trovato un equilibrio. Equilibrio che è necessario per programmare investimenti e strategie, per chi fa e vende tabacco come qualsiasi altra cosa. E tutto ciò senza che vi sia neppure un qualche presunto beneficio in termini di salute pubblica. Questo è solo un esempio – se ne potrebbero fare altri – di come interventi disordinati possano complicare la vita a consumatori e operatori nel nome di un gettito irrisorio, per il quale sarebbe meglio trovare copertura attraverso interventi mirati sulla spesa pubblica.

Aggiornato il 30 novembre 2022 alle ore 09:28