Stringere la cinghia oggi per non abbassarsi i calzoni domani

Negli ultimi mesi abbiamo letto del ritardo italiano sugli impegni contratti dal governo di Mario Draghi per ricevere le ulteriori tranche del Pnrr e se convenga accelerare o rallentare per riflettere se non sia meglio non indebitarsi ulteriormente per avviare progetti dispendiosi e inutili, se non dannosi. Il nostro debito pubblico arriverà presto a tremila miliardi di euro. Una voragine che rischia di inghiottire l’intero sistema economico e sociale italiano, causata dalle politiche dirigiste e assistenzialiste che negli anni passati hanno dilatato la spesa pubblica a tal punto che ormai c’è chi sostiene che miliardo in più o in meno poco cambierebbe. Purtroppo nonostante sia chiaro che la nostra è diventata una democrazia che vive perennemente in deficit, non si vedono all’orizzonte scenari di ripensamento sul continuare a indebitare le presenti e le future generazioni, anzi il tema è diventato come fare per spendere tutto quello che l’Unione europea ha deciso di mettere a disposizione dopo la pandemia. A un osservatore scevro da ideologismo statalista, parrebbe preferibile e saggio rinunciare alla parte di prestito del Pnrr e utilizzare solo quella a fondo perduto. Sarebbe una dimostrazione di serietà e responsabilità, non solo nei confronti degli italiani ma anche dei Paesi europei più importanti che non hanno aderito alla politica del debito.

Le risorse mobilitate per il Next generation Eu sono di 723,8 miliardi di euro, distribuite tra prestiti (385,8 miliardi) e fondo perduto (338 miliardi). La maggior parte degli Stati, tra questi Germania, Francia e Spagna, ha richiesto però solo quelle che sono a fondo perduto. Solo 7 nazioni, infatti, hanno voluto anche gli stanziamenti a debito: l’Italia, con 122,6 miliardi di euro, è quella che ha pensato di accaparrarsi la quota più cospicua, a seguire troviamo la Romania con 15 miliardi, la Grecia con 12,72 miliardi, il Portogallo con 2,69 miliardi e chiude questo elenco la Slovenia con 0,71 miliardi. In conclusione, siamo fuori dal club delle grandi nazioni europee e rimaniamo a giocare nella seconda parte della classifica. Il nostro sistema economico, se liberato dallo statalismo e dalla burocrazia, saprebbe fare da solo e meglio senza l’intervento pubblico, che come il miele attirerà inevitabilmente mosche di ogni dove con tutto quello che possiamo immaginare. Ma arrivati a questo punto bisognerebbe cogliere l’occasione per liberarsi del pesante fardello di debito voluto dai governi precedenti, lasciando questa quota debitoria nelle casse dell’Unione europea.

Sarebbe più opportuno impegnare tutte le nostre energie per realizzare solo quegli interventi infrastrutturali di carattere strategico più che spendere tempo, energie e denaro in inutili progetti, redatti solo per impiegare i prestiti europei in qualche modo solo per non lasciarli tornare indietro anche a causa di un apparato burocratico che in questi anni ha perso capacità e competenze senza un ricambio o un aggiornamento adeguato. Peraltro, questi fondi li dovremo, non si sa come visti i chiari di Luna, restituire. L’utopia sarebbe non spendere tutto, ma meglio. È emblematico tra le altre cose quello che sta avvenendo negli Stati Uniti dove è stato lanciato l’allarme sul debito pubblico, che se non verrà sforato ancora una volta gli Usa rischieranno il default e quando il Congresso aumenterà la soglia di debito ripartirà velocemente la corsa a sfondarlo di nuovo. È una cosa verso il baratro, una vite senza fine. E infatti il segretario al Tesoro americano, Janet Louise Yellen ha affermato con tono perentorio che “date le attuali previsioni, è imperativo che il Congresso agisca prima possibile per aumentare o sospendere il limite del debito in modo da fornire la certezza a lungo termine che il governo continui a effettuare i pagamenti”, se non è un’emergenza questa, cosa lo è?

Cosa succederebbe all’Italia, visti gli impegni sempre più importanti come quelli per le forniture militari già assunti, se il debito pubblico risultasse non più sostenibile dal sistema economico nazionale? E se ci fosse una crisi di liquidità cosa faremmo? E con un’inflazione di nuovo in risalita che brucia risorse a famiglie e imprese dove prenderebbe lo Stato la ricchezza che servirebbe a non mandare a gambe all’aria le finanze pubbliche? Ovviamente da un aumento generalizzato delle tasse innescando una recessione di lungo periodo. Proprio quello che si dice di voler scongiurare. Sostengono Alberto Alesina, Carlo Ambrogio Favero e Francesco Giavazzi in Austerità. Quando funziona e quando no “i tagli alla spesa sono solitamente associati a lievi recessioni. Una riduzione del deficit pari al 1 per cento basata su tagli alla spesa è in media associata a una deviazione del Pil dal tasso di crescita medio del Paese inferiore allo 0,5 per cento e questa deviazione non dura solitamente più di un paio d’anni al contrario, i piani basati sulle tasse sono associati a recessioni profonde: perdite di produzione pari al 2 o 3 per cento del Pil per una riduzione del deficit pari all’1 per cento del Pil. Queste recessioni durano, inoltre, parecchi anni”. E allora meglio una responsabile austerità che una insostenibile fastosità, anche se grazie a John Maynard Keynes, il guru del partito della spesa, questo cambio di rotta difficilmente avverrà e la vite continuerà a forare il nostro patrimonio, personale e nazionale. Giorgia Meloni e il suo governo ci riflettano attentamente, prima di avventurarsi verso lidi impervi. Meglio stringere la cinghia oggi che abbassarsi i calzoni domani.

Aggiornato il 05 maggio 2023 alle ore 12:04