L’Industria automobilistica al bivio: competitività o rovina

In questi giorni è accaduto che il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, sia sceso in piazza con i metalmeccanici in sciopero della United Auto Workers (Uaw) in Michigan, il sindacato di sinistra che conta circa 390mila membri attivi e più di 600mila pensionati, suddivisi in oltre 750 associazioni locali, operanti in diversi settori industriali, anche molto diversi tra loro, dalle automobili e alla sanità, ai casinò e all’alta formazione. In questo periodo al centro della questione c’è la contrattazione salariale. Peraltro, anche Donald Trump ha fatto una capatina nel Michigan, perché questo Stato si è rivelato determinante per la sua sconfitta. Senza entrare nelle comprensibili questioni elettorali sta di fatto che il gesto del presidente in carica è senza precedenti. Gli altri inquilini della Casa Bianca avevano mantenuto in tutte le controversie sindacali un atteggiamento di neutralità, lasciando alle parti, come è giusto che sia, la facoltà di accordarsi per il meglio. I presidenti americani al massimo offrivano sedie e tavoli su cui fare la mediazione, senza però manifestarsi come sponda per nessuna delle fazioni in causa. Un comportamento saggio ed equilibrato che lasciava ai duellanti la possibilità di raggiungere un accordo soddisfacente per entrambi gli schieramenti.

Da qualche giorno non è più così. Joe Biden ha scelto, per motivi probabilmente elettoralistici, di prendere le parti del sindacato attaccando anche frontalmente le aziende più importanti del settore automobilistico (Ford, General Motors e Chrysler, adesso Stellantis), dichiarando che, avendo realizzato ingenti profitti, devono condividerli con i lavoratori che se lo “meritano”, visti gli sforzi che hanno sostenuto. In un solo colpo il presidente degli Stati Uniti ha eroso tutti i vantaggi di lasciare la contrattazione alle parti. La flessibilità che permette accordi su specifiche esigenze e condizioni è andata a farsi benedire insieme all’efficienza, infatti la negoziazione diretta tra lavoratori e datori di lavoro può essere più producente rispetto a un processo governativo centralizzato. Inoltre le parti coinvolte in genere hanno un interesse diretto nel raggiungere accordi equilibrati e sostenibili, poiché sanno che saranno direttamente colpite dai risultati. Infine la capacità di negoziare condizioni di lavoro che soddisfano entrambe le parti può portare a un ambiente di lavoro più positivo e motivante, migliorando la produttività e la soddisfazione dei dipendenti. Peraltro evitare l’intervento politico aiuta a risparmiare risorse pubbliche, poiché non diventa necessario istituire organi di regolamentazione e controllo aggiuntivi per gestire i contratti di lavoro. Per non dire che l’autonomia negoziale favorisce l’innovazione nei contratti di lavoro, permettendo di sperimentare nuove forme di compensazione, orari di servizio, benefici e altro ancora per trovare soluzioni più adatte alle varie esigenze che si presentano. Ma quando la demagogia prende il sopravvento tutto è perduto sull’altare della convenienza immediata.

Lo stesso sindacato avrebbe dovuto chiedere che l’arbitro del momento, Joe Biden, non scendesse in campo a loro a fianco, da una lato per preservarne l’autorevolezza che l’imparzialità attribuisce e dall’altro per non creare un precedente che al cambio di presidenza potrebbe volgersi a loro danno. Le richieste dei rappresentanti dei lavoratori comunque rasentano il socialismo reale della vecchia Unione Sovietica. Infatti l’Uaw ha chiesto non solo un aumento salariale del 40 per cento, ma anche quello che in Italia si chiamava “scala mobile”, un meccanismo per cui i salari aumentano automaticamente con l’inflazione, cosa che innescherebbe una corsa senza limite della stessa. Come ciliegina sulla torta propongono la riduzione delle ore lavorative da 40 a 32 ore, e persino un provvedimento che garantisca “che i lavoratori degli stabilimenti chiusi vengano pagati allo stesso modo per svolgere servizi alla comunità” (quelli che qui da noi conosciamo come “lavori socialmente utili”, con la differenza che qui sono stati coperti da fondi pubblici e lì dovrebbero esserlo dalle case automobilistiche).

Sappiamo molto bene cosa hanno prodotto queste politiche assistenziali qui e cosa sarebbero capaci di fare negli Stati Uniti, d’altronde il principio che ci sta dietro è sempre lo stesso distillato di marxismo: “la proprietà è un furto”, le imprese sono delle sfruttatrici e la ricchezza prodotta va redistribuita a tappeto senza nemmeno un criterio di merito. Secondo alcuni calcoli le richieste contrattuali della Uaw “aggiungerebbero più di 80 miliardi di dollari al costo del lavoro di ciascuna delle più grandi case automobilistiche statunitensi” e aumenterebbero il costo del lavoro orario complessivo ad almeno 150 dollari all’ora, più del doppio dei 64 percepiti attualmente dai lavoratori. Un balzo enorme.

A prima vista sembrerebbe anche una bella proposta che renderebbe tutti felici: le imprese caccerebbero dei bei dollaroni e gli operai li beccherebbero con grande soddisfazione. Ma il tutto ha un risvolto tragicomico: chi paga? Scriveva Milton Friedman su queste materie che “non esistono pasti gratis”. Infatti la ricaduta sarebbe pesantissima sul prezzo finale delle autovetture a danno dei potenziali consumatori e dei lavoratori stessi. Le autovetture subirebbero una impennata di prezzo, diventando di colpo poco competitive sul mercato, vista la concorrenza di coreani, cinesi e di Tesla, che continuando a pagare i loro dipendenti a 50 dollari l’ora manterrebbero l’attuale prezzo per i loro modelli che sarebbero ancora più appetibili per il pubblico americano. Il conseguente calo di vendite da parte delle tre grandi figure sarebbe il conto finale da pagare, con la conseguente chiusura definitiva degli stabilimenti di Detroit. Un bel risultato per il sindacato di sinistra che dice di voler tutelare gli operai! Il quale dopo urlerebbe al tradimento e chiederebbe sussidi pubblici per i lavoratori che loro stessi hanno portato alla deriva. Sostiene Willy Shih, professore di Management presso la Business School dell’Università di Harvard, che ci si può schierare dalla parte dei lavoratori e aumentare i costi per tutti, “ma allora qual è la competitività a lungo termine dell’industria nazionale? Non è possibile gestire questo settore con sussidi per i prossimi 50, 100 anni, ad un certo punto devi essere competitivo a livello globale”.

Si rileva però che al presidente Joe Biden la Uaw non ha chiesto invece conto delle politiche ambientaliste messe in campo contro i motori endotermici prodotti proprio lì in favore di quelli elettrici, realizzati altrove e di cui gli Usa non hanno il primato. L’ecognosticismo dilagante, propugnato proprio dalla sinistra democratica americana e non solo, ha cominciato a produrre i suoi nefasti effetti: la perdita di milioni di posti lavoro in tutto il mercato occidentale, visto che anche l’Unione europea la segue acriticamente su questo crinale a ruota libera. Lo stesso fenomeno sta avvenendo anche qui da noi con la vertenza aperta sulla chiusura dello stabilimento Marelli Europe di Crevalcore e il licenziamento immediato di 229 lavoratori, comunicato nei giorni scorsi dalla proprietà. Nonostante l’intesa raggiunta, grazie all’intervento del Governo, tra impresa e sindacato, con la quale si sospende “sine die la procedura di chiusura per approfondire tutte le ipotesi in campo per salvaguardare le attività dello stabilimento”, resta aperta ancora la questione di che fare di un settore economico che sarà investito dalla eco-politica industriale, che vuole eliminare dall’alto la possibilità in futuro per i consumatori di acquistare ancora unauto a motore termico.

Quale sarebbe l’idea risolutiva? Un intervento del Governo in ogni situazione disperata? Cassa integrazione e indennità di disoccupazione per tutti i lavoratori “ad libitum”? Nazionalizzazione degli stabilimenti in crisi? Reintroduzione del reddito di cittadinanza? Una via possibile, come sempre, risiede nella libertà di scelta dell’individuo che con la scusa del bene comune, la salvezza del pianeta, la si vuole progressivamente ridurre a ciò che un gruppo di interesse giudica “giusto politicamente”, “sostenibile economicamente” ed “etico ecologicamente”. Il motore elettrico forse sarà il futuro dell’autotrazione, non possiamo comunque prevederlo, ma non può certo diventarlo per decreto senza lasciare una sfilza di gravi crisi prima economiche e poi sociali, che i governi dei vari Stati saranno costretti a fronteggiare. Con il rischio che il potere politico diventi sempre più pervasivo e sostituendosi a una delle parti in causa di volta in volta, brandendo la bandiera del sindacato o dell’impresa, a seconda della sensibilità della sua maggioranza e del momento, potrebbe costituire un pericolo per la saldezza della democrazia e per la tenuta dei conti pubblici, visto che sarebbe costretto a intervenire erogando sussidi e imponendo nuove tasse. La normalità per il settore dell’automobile è il libero mercato di cui il consumatore è l’unico sovrano legittimo e quindi a lui solo va lasciata la facoltà di scegliere che macchina guidare, a motore termico o elettrico, in funzione della sue convinzioni, inclinazioni, convenienze e gusti personali.

Pertanto sarebbe utile proporre, da dentro e da fuori il Parlamento, all’Unione europea e al Governo italiano, se non vogliamo tornare al “tiro a quattro” (anche se sul piano estetico ad alcuni non dispiacerebbe), l’abolizione di ogni tipo di incentivo all’acquisto di qualsiasi mezzo, elettrico, termico o ad aria compressa, perché questa politica ha comportato solo un’alterazione del mercato mettendo in circolazione forzosamente veicoli che non sappiamo ancora quanto convenienti siano sul piano economico e ambientale. L’ecognosticismo e il demagogismo ci hanno portato a perdere di vista gli obiettivi di qualsiasi impresa affidabile e degli individui: per la prima “fare profitti” da distribuire ai propri azionisti e per i secondi possedere mezzi di locomozione comodi, convenienti, innovativi ed accattivanti.

Aggiornato il 05 ottobre 2023 alle ore 11:15