Giustizia sportiva: caccia alle streghe

Se i meccanismi di funzionamento del comparto giustizia italiano necessitano di una profonda revisione, la sua appendice sportiva andrebbe rasa al suolo e ricostruita. Secondo gli intenti della Federazione italiana giuoco calcio, la Corte di giustizia federale - e il suo comparto inquisitorio - la Procura federale, dovrebbero agire per salvaguardare il valore dell’etica sportiva laddove venga infangata da comportamenti che ne violino i paletti segnati dai regolamenti. Il problema si pone quando l’illecito sportivo si intreccia con un’azione potenzialmente truffaldina anche per la magistratura ordinaria.

Il che, in un contesto nel quale l’agonismo del campo è funzionale alla movimentazione di ingenti somme di denaro, è quasi fisiologico. I tempi dei giudici dello sport sono sincopati, devono rispettare le leggi dello show must go on. Per farlo, i regolamenti della giustizia sportiva non tengono conto di quell’insieme di garanzie che tutelano (in teoria) il cittadino imputato. Si tenga anche conto che il rapporto politico tra la Federazione e il suo braccio giuridico è molto più stretto di quanto non avvenga nella magistratura ordinaria.

E che ai vertici della Federazione si susseguono da anni dirigenti che hanno dimostrato di non riuscire ad indirizzare il mondo del pallone su quei binari che, nel corso degli ultimi vent’anni, hanno avvicinato campionati di calcio europei al modello privatistico che regola l’Nba (si guardi alla Premier League, per esempio). Un mix che ha iniettato nel calcio italiano, con Calciopoli, veleni che l’organismo del pallone impiegherà generazioni a debellare. Con sentenze sclerotiche (il sistema arbitri-dirigenti ha visto, con pochissime eccezioni, condannare solo questi ultimi e le relative squadre), dopo processi contingentati in una manciata di giorni. Tre giorni soli, ad esempio, dovevano essere sufficienti alle difese dei deferiti per leggersi le migliaia di pagine dei faldoni del procedimento, per elaborare un’arringa che, in soli venti minuti, avrebbe dovuto illustrare le ragioni dei presunti rei. Tempi e metodi che, uniti alla spasmodica attenzione della stampa per il rotolamento del pallone sui grandi prati verdi, portò a celebrare i processi (sportivi) in piazza. 

La sete di sangue e il lancio di metaforiche monetine contro i due grandi Babau del calcio italiano, Juventus e Milan, fu placata con un giro di sentenze manettare contro club e dirigenti.

E se Calciopoli, volendo semplificare, si è dimostrata la Tangentopoli dell’italico sport, peggio si rischia di combinare con il caso Calcioscommesse. Perché truccare il risultato di una partita, truffando agenzie di scommesse e scommettitori, è un reato che se c’entra con l’etica sportiva ancor più attiene alla giustizia ordinaria. E che avrebbe bisogno, nella sua valutazione, di quel sistema di garanzie che il processo sportivo tende a negare. 

Si prenda il caso dell’allenatore della Juventus, Antonio Conte. È stato accusato da un suo ex giocatore, Filippo Carobbio, di essere stato parte, insieme al Siena, società nella quale militavano entrambi, della combine di un incontro con il Novara. Una dichiarazione che non ha mai trovato riscontro alcuno: non ci sono testimonianze concordi, né una movimentazione di denaro a comprovarlo. Ma il capo dei pm sportivi, Stefano Palazzi, ha deciso di incriminare lo stesso Conte. Non per aver partecipato alla frode della quale è accusato, ma per aver omesso di denunciarla. Un’accusa arbitraria alla quale è seguita un’incriminazione altrettanto arbitraria. Un bizzarro modo di appurare la verità dei fatti. Di fronte alla quale l’imputato, a strettissimo giro di posta, ha in carico l’obbligo di dimostrare la propria innocenza. E, in mancanza di prove concrete a suo discapito, di patteggiare forfettariamente una pena.

Se l’allenatore juventino ha una colpa, è quella di aver cercato di concordare l’entità della propria squalifica con chi ha portato avanti, in un contesto di regole fumose e incoerenti, un processo indiziario. Nel quale magistratura inquirente e giudicante si sono accontentate di presumere un reato, rilevante anche per la magistratura ordinaria. Lasciando al cittadino Conte l’onere di smontare quella che, in un qualsiasi stato di diritto, si configura come una diceria. Come succedeva con le streghe nel Medioevo. Come è successo con Tangentopoli.

Nonostante piacciano molto alla stampa-bene e ai salotti-buoni del paese, non sarebbe l’ora di smetterla di istituzionalizzare queste class-action caciarone da frignoni del campetto? Quello forte, stronzo e antipatico - nonostante sia tale - ha lo stesso diritto di giocare degli altri. Bisogna farsene una ragione.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 13:36