L’assalto cinese all’economia nazionale

La Cina è vicina. Forse anche troppo.

L’allarme lanciato nelle ultime settimane dai servizi segreti italiani circa gli interessi economici del fu Celeste Impero per il patrimonio immobiliare e la cantieristica navale italiana è passato quasi sotto silenzio, fatta esclusione per i servizi pubblicato da Il Sole 24 Ore e La Repubblica. Eppure, una notizia del genere avrebbe meritato uno spazio nelle prima pagine di tutti i quotidiani, quanto quella di una dichiarazione di guerra. Perché è esattamente di questo che si tratta: di un conflitto bellico senza esclusione di colpi, pur senza che si arrivi mai nemmeno ad esplodere un colpo.

Una guerra fredda che si combatte a suon di fusioni e acquisizioni, di grandi capitali e di grandi praterie tutte da conquistare. Una guerra che vede da un lato un nemico potente e molto ben equipaggiato delle armi più efficaci in conflitti come questo (i soldi), e dall’altro un paese, come l’Italia, che in balìa di una delle più gravi crisi economiche della sua storia non si cura nemmeno di tutelare i propri “gioielli di famiglia”. 

Non tutti gli investimenti che arrivano dall’estero sono infatti auspicabili, né portano benefici all’economia nazionale. Le recenti acquisizioni operate da grandi gruppi finanziari cinesi, supportate passo dopo passo dal lavoro della diplomazia di Pechino, al pari di un’azione di stato, sono infatti finalizzate ad acquisire il controllo di marchi strategici per sottrare prezioso “know how” e delocalizzare la produzione in estremo oriente. 

Del rischio di veder finire l’Italia completamente in balia dei capitali stranieri aveva parlato già nel luglio scorso la Consob, denunciando un vero e proprio assalto all’arma bianca da parte dei fondi sovrani istituiti a suon di petrodollari dai paesi del Medio Oriente ai danni delle aziende strategiche italiane. Nel mirino di investitori stranieri mossi da un non esclusivo interesse verso il profitto economico, ma da un vero e proprio desiderio di controllo politico, vi sarebbero non solo imprese che operano nel settore della difesa, ma anche dei trasporti, delle telecomunicazioni, delle infrastrutture, delle fonti di energia ma anche nell’erogazione di servizi pubblici in genere.

Se il controllo di queste aziende definite “strategiche” dovesse passare in mano straniera, il paese subirebbe non solo danni economici incalcolabili ma anche, di fatto, una consistente perdita di sovranità. Proprio come nel caso di un’invasione militare.

L’Italia, ammoniva a luglio la Consob, è in forte ritardo nell’adozione delle contomisure necessarie ad evitare la capitolazione, e il poco che ha fatto lo ha fatto male. «Diversamente dalla Francia e dalla Germania, anche negli anni di massima espansione dell’operatività dei fondi sovrani, l’Italia ha preferito non dettare una disciplina generale a tutela delle imprese strategiche nazionali, intervenendo in tal senso soltanto recentemente, con l’emanazione del decreto legge 15 marzo 2012 n. 21», citava infatti il report della commissione di vigilanza sulle borse. Prima del Dl 27/2012 esisteva una legge del 1994, poi modificata nel 2003, che conferiva all’autorità statale “poteri speciali” sulle privatizzate ritenute strategiche. Ma la genericità di questi poteri attribuiti in capo allo stato è costata al nostro paese ben due procedure di infrazione da parte della Commissione europea per «violazione delle disposizioni inerenti la libertà di movimento di capitali e di stabilimento». 

Dopo il Medioriente, ecco la Cina. Un avversario ancor più pericoloso dal momento che, oltre a poter contare su possibilità economiche pressoché sconfinate, gioca ancora più sporco, e senza andare troppo per il sottile. I cinesi, infatti, hanno da tempo eletto a prassi pratiche scorrette e illegali quali il dumping monetario (ovvero la sottovalutazione forzata e la non convertibilità dello Yuan, moneta nazionale cinese), concorrenza sleale, invasione dei mercati stranieri attraverso la vendita sottocosto dei prodotti cinesi (dumping commerciale), ma anche contraffazione, delocalizzazione, barriere commerciali. Pratiche contro le quali, in Italia così come nel resto d’Europa, non si è mai fatto granché, se non sporadiche quanto inutili proteste verbali.

Insomma: à la guerre comme à la guerre. E se la Cina sta dimostrando di prendere la sfida estremamente sul serio, in Italia non ci siamo nemmeno ancora accorti di essere sotto attacco.

Aggiornato il 09 aprile 2017 alle ore 15:43