La storia della mafia  di Leonardo Sciascia

Un consiglio, per quello che può valere: procuratevi La storia della mafia di Leonardo Sciascia, meritoriamente pubblicata dalle edizioni Barion, “etichetta” gloriosa, specializzata nella pubblicazione di romanzi celebri a prezzi popolari, e rilevata da Mursia. Si tratta di uno smilzo volumetto di una settantina di pagine, costa 8 euro; il testo di Sciascia è accompagnato da “Io, Nanà e i don”, di Giancarlo Macaluso e impreziosito da una postfazione di Salvatore Ferita. Il piccolo saggio di Sciascia è un quasi inedito: pubblicato in origine per la rivista mondadoriana “Storia Illustrata” nell’aprile del 1972; il quotidiano francese “Libération” poi lo ripubblicò il 30 dicembre 1976. Infine, questo testo viene utilizzato come prefazione dal giornalista francese Fabrizio Calvi per la sua ormai difficile da trovare La vie quotidienne de la Mafia 1950 à nos jours, e per la traduzione italiana del libro, La vita quotidiana della mafia dal 1950 a oggi (Rizzoli). Un testo, quello di Sciascia che, a oltre quarant’anni di distanza ancora prezioso e per quanto abusato vocabolo, “attuale”; naturalmente avendo sempre presente l’avvertenza che occorre situare ogni situazione nel suo contesto, e tener conto delle evoluzioni, che – nel caso di Cosa Nostra – sono di difficile e lenta decifrazione. Bellissimo paese l’Italia, disse una volta Sciascia; ma con un grande difetto: smarrisce la memoria.

E non solo: è un paese senza verità. L’“innocenza” l’Italia non l’ha persa, come molti hanno detto, nel 1969, con lo scoppio delle bombe alla Banca dell’Agricoltura a Milano. L’innocenza l’aveva già persa il 1 maggio del 1947 con la strage di Portella della Ginestra. E’ quel giorno che comincia la lunghissima teoria delle menzogne di Stato, i suoi segreti e misteri. E anzi, a esser puntigliosi, due anni prima, il 17 giugno del 1945, il leader dell’indipendentismo siciliano (di sinistra) Antonio Canepa viene ucciso assieme a due suoi compagni inun conflitto a fuoco con i carabinieri, alle porte di Randazzo…(e al riguardo sono di estremo interesse i due volumi di Salvo Barbagallo, Antonio Canepa, ultimo atto, e L’uccisione di Antonio Canepa. Un delitto di Stato?, Bonanno editore). Ne “I piaceri” Vitaliano Brancati – autore tra i prediletti di Sciascia – nota che “se noi non ricordassimo, il mondo sarebbe sottilissimo, una lastra di spessore, sulla quale fulmineamente stampato, un perpetuo presente attirerebbe su di sé i nostri sguardi stupiti e incantat”; e poi un’osservazione quasi incidentale, ma di grande profondità: “Molte generazioni evitano di abbruttirsi solo perché uno dei loro componenti ha il dovere di ricordare”. Come nel celeberrimo romanzo di Ray Bradbury, Fahrenheit 451 descrizione di un mondo cupo e orrido, dove gli sgherri dell’oligarchia al potere bruciano ogni libro che capita loro tra le mani; e il sapere, la speranza del sapere, il sapere della speranza, sono affidati a pochi volenterosi, che quei libri li imparano a memoria, si impongono il dovere di non smarrire la memoria. Per tornare a Sciascia.

Uno degli autori da lui più amato è stato Giuseppe Antonio Borgese, uno dei tredici che non votò fedeltà al regime fascista e venne espulso per questo dall’università; autore di quel Golia definito “uno dei migliori libri per la comprensione del fenomeno fascista, quello di Mussolini, ma non solo: quell’eterno fascismo italico che si nutre dell’intolleranza e della nozione di stato etico e, come tale, è sempre in agguato e può reincarnarsi continuamente in nuovi statolatri”. Erano gli anni Ottanta, quando Sciascia denunciava questi rischi; trent’anni dopo il rischio è divenuto certezza. E chissà se è un caso se il Golia non si stampa e non si può leggere più. Ci stiamo avvicinando alla ‘nostra’ Storia della mafia. Ruggero Guarini, quand’era ancora responsabile della terza pagina del “Messaggero” – stiamo parlando di trent’anni fa – ha scritto che Sciascia «crede di essere nipote di Voltaire, figlio di Pirandello, fratello di Borges, con una sostanza culturale di derivazione squisitamente giornalistica». Goffredo Fofi, sui “Quaderni Piacentini”, sostiene che “L’opera di Sciascia e il suo aspetto profondamente reazionario finisce per prevalere sui non pochi meriti, la sua programmatica sfiducia nel popolo sul suo ostinato amore per gli ostinati ribelli, la sua amara e inutile vecchiaia su quel che di nuovo la sua opera pure avrebbe potuto avere”. Non è da meno Grazia Cherchi, raffinata critica e consulente editoriale, in una notarella libraria apparsa su “Linus”: L’affaire Moro è “un libro inutile e nato morto, di cui ci siamo dimenticati subito, e senza sforzo”; La Sicilia come metafora è null’altro che “una stracca intervista”, mentre Nero su nero è un patchwork “di note e notarelle, commenti e commentini, motti e mottetti, lamentazioni sul nostro paese, aforismi abortiti”; né è da meno Oreste del Buono; su “Panorama” scolpisce: “E’ come se allo Sciascia che tutti conosciamo e di cui io ho per primo nostalgia, quello lucido e anticipatore degli avvenimenti di Todo modo e del Contesto, si fosse aggiunto adesso un secondo personaggio, una specie di mister Hyde, che parla, scrive, fa il moralista al posto dell’altro”.

Non basta. Sempre del Buono, a cui va riconosciuto il primato, tornato ad occuparsi di Sciascia, su “Linus” lo accusa di essere un poco mafioso, e conseguentemente di lanciare “avvertimenti” (mafiosi, beninteso) verso chi dissente dal tripudio generale nei suoi confronti. Ancora: per Giovanni Roboni Sciascia “è precipitato al livello di un terrorismo piccolo-borghese, per non dire qualunquista”; Giampaolo Pansa sostiene che “il nuovo Sciascia ci fa una gran pena. A me pare che Sciascia si è messo a combattere con Sciascia. Sciascia contro Sciascia. Impegnato a demolire articolo dopo articolo, l’immagine di se stesso”; Claudio Fava dipinge un “Leonardo Sciascia, ormai travolto dagli anni e da antichi livori...”; mentre per Nando Dalla Chiesa, che sostiene di averci pensato a lungo, e di essere giunto “…alla conclusione che Il giorno della civetta è uno splendido libro sulla mafia, una fotografia perfetta, ma non uno strumento di lotta contro la mafia”. Arrivano poi gli attacchi e le volgarità postume. Pino Arlacchi su “La Repubblica” sostiene che Sciascia non può essere considerato un maestro, “perché gravissimi furono i suoi silenzi, mentre altri sfidavano le cosche»; e perfino che II giorno della civetta in realtà fa l’apologia di Cosa Nostra”.

Testuale: “Una storia ben narrata della sconfitta della giustizia dello Stato e dei suoi rappresentanti di fronte a un delitto di mafia”. Trascurabile il fatto che ciò che viene raccontato nel libro era quello che in quegli anni accadeva; irrilevante che sia stato grazie a Sciascia e al suo libro che se ne è avuta, finalmente percezione e conoscenza. Tutto ciò, per Arlacchi diventa una sorta di complicità. E, infatti: “Dei due maggiori personaggi del racconto, il capitano dei carabinieri e il capobastone locale, è il secondo che colpisce sovrasta”. Conclusione: “Sciascia stregato dalla mafia”. Un livello di polemica che indigna Tullio De Mauro, il fratello di Mauro De Mauro, il giornalista de “L’Ora” impegnato in inchieste di mafia, scomparso un giorno del 1970 e mai più tornato e ritrovato. Dice De Mauro: “I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fenomeno folcloristico siciliano. E Sciascia si è sempre esposte in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 dalla scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti, per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in una serie di innumerevoli circostanze. Un sociologo [Arlacchi, ndr] dovrebbe valutare queste cose, come dovrebbe aver capito che Sciascia aveva intuito perfettamente la struttura internazionale della mafia e i suoi stretti rapporti con il mondo della politica”.

Non solo Arlacchi. Anni fa, interpellato dal “Corriere della Sera”, il filosofo Manlio Sgalambro se ne è uscito dicendo che “Sciascia era uno scrittore civile, un maestro di scuola che voleva insegnarci le buone maniere sociali. Ma a rivisitarlo oggi è come rileggere Silvio Pellico, la sua funzione è esaurita, Sciascia non ci serve più”. E come non ricordare Andra Camilleri, che pure di Sciascia si professava amico? Anche lui a dire che Il giorno della civetta fa l’apologia della mafia, dimostrando così che si può essere bravi romanzieri la cui parola è più veloce del pensiero. E allora, prima di finire, prendiamo il toro per le corna, vediamo che fondamento può mai avere quest’accusa. “Non c’è nulla che mi infastidisca quanto l’esser considerato un esperto di mafia, o come si usa dire, un mafiologo”, scrisse Sciascia sul “Corriere della Sera” del 19 settembre 1982 (“Mafia: così è, anche se non vi pare”). “Sono semplicemente uno che è nato, vissuto e vive in un paese della Sicilia occidentale e ha sempre cercato di capire la realtà che lo circonda, gli avvenimenti, le persone. Sono un esperto di mafia così come lo sono in fatto di agricoltura, di emigrazione, di tradizioni popolari, di zolfatara; a livello delle cose vissute e in parte sofferte”. Quell’“in parte sofferte” è indicativo. C’è il ricordo del sindaco mafioso di Racalmuto, si chiamava Baldassarre Tinebra, ucciso nel corso principale del paese, tutti sanno chi è l’assassino, nessuno parla, in galera ci finisce uno che il delitto non l’ha commesso; c’è il ricordo del nonno, capo-mastro in una zolfatara, “uomo dal polso fermo che riusciva a governare la miniera senza consentire intromissioni a sgherri e gregari delle cosche, arginando le vessazioni…”. Non era un mafiologo, Sciascia; ma di mafia capiva, vedeva, sapeva. Al punto da darne esatta rappresentazione e definizione, quando disse con fulminante battuta e amarissima ironia che dal giorno della civetta si era arrivati al giorno dell’avvoltoio.

Cos’era la mafia non solo l’aveva capito; lo aveva anche scritto, in lunghe corrispondenze, per esempio, per quel bel giornale che negli anni Sessanta era “Il Giorno” voluto e finanziato da Mattei. Articoli dove si racconta di Castelvetrano, il paese del bandito Giuliano; o di Misilmeri: e quello, davvero esemplare, del 4 aprile 1940: dove descrive la realtà di Caltanissetta e di Riesi, e si riporta il dialogo in piazza “con due avvocati e un professore”, due democristiani che facevano capo alla corrente uno di Rosario Lanza, fanfaniano; l’altro di Calogero Volpe, sostenitore in quel momento di Aldo Moro; il professore invece era, diceva, di fede socialista. Nella piazza di Riesi parlano di mafia. Alla domanda di Sciascia: cosa fa, di preciso, la mafia?, “Niente fa”, risponde il socialista; e il democristiano di Volpe sorride compiaciuto. “Si diceva”, continua il socialista, “badi bene: si diceva che la buonanima dello zio fosse un capomafia. E che faceva? Due litigavano: lo zio li portava al caffè, pagava sempre lui, e faceva stringere loro la mano. Opera di pace”. L’inchiesta per “Storia illustrata” si chiude con un aneddoto estremamente significativo. Un aneddoto che riguarda il mafioso italo-americano Vito Genovese, da cui Mario Puzo trarrà ispirazione per il suo “Padrino”: “Genovese, in America ricercato per omicidio, si trovava in Sicilia nel 1943-44, sistemato come interprete presso il Governo Militare Alleato. Un poliziotto di nome Dickey, che gli dava la caccia, riesce finalmente a trovarlo. Facendosi aiutare da due soldati inglesi lo arresta; gli trova addosso lettere credenziali, firmate da ufficiali americani, che dicevano il Genovese profondamente onesto, degno di fiducia, leale e di sicuro affidamento per il servizio’. Una volta arrestato, cominciano i guai, non per il Genovese, ma per il Dickey. Né le autorità americane né quelle italiane vogliono saper nulla dell’arresto.

Il povero agente si trascina distro per circa sei mesi l’arrestato, e riesce a portarlo a New York soltanto quando il teste che accusava di omicidio il Genovese è morto di veleno (come il luogotenente di Giuliano, Gaspare Pisciotta, nel carcere di Palermo), in una prigione americana. Soltanto allora, cioè quando Genovese poteva essere assolto, Dickey poté assolvere il suo compito. E ci fermiamo a questo solo episodio ‘americano’ e non come si suol dire, per carità di patria; ma perché troppi, e ugualmente esemplari, dovremmo raccontarne di casa nostra”. Il saggio “La Storia della mafia” del 1972 fa giustizia di tante pretestuose polemiche subite e patite da Sciascia; ed è lettura che va accompagnata a un’altra lettura (o rilettura): quella dell’articolo sui “Professionisti dell’antimafia” poi compreso nel volume A futura memoria, se la memoria ha un futuro”(Bompiani). Un articolo nel quale Sciascia pone una questione di metodo e di legalità fondamentali: la questione che anche l’antimafia può essere agitata a scopo di demagogia; e di come le regole debbano essere osservate sempre; se poi queste regole non sono più adatte, efficaci, vanno cambiate, ma non le si può disattendere.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:50