Una chimera di nome   “spending review”

Mentre dentro il Partito democratico ci si accapiglia intorno allo specchietto per le allodole dell’articolo 18, sul piano dei conti pubblici il Governo è alle prese con una situazione molto difficile. Si devono infatti trovare 20 miliardi di euro (cifra che tuttavia dovrebbe aumentare dato che il calo di oltre un punto del Pil, rispetto alle previsioni dell’Esecutivo, comporterà un ulteriore, mancato gettito) con cui coprire le nuove spese realizzate nell’Era Renzi.

Ora, come è noto, tutte le speranze di far quadrare i disastrati conti pubblici sono riposte nella chimerica spending review. Tant’è vero che alcuni giorni orsono a Palazzo Chigi c’è stato un incontro ristretto tra il premier, il titolare all’Economia Pier Carlo Padoan, il quasi ex commissario Carlo Cottarelli e l’onnipresente ministra Maria Elena Boschi per discutere intorno ad una riduzione del 3 per cento della spesa relativa ai vari ministeri. Ovviamente, e non poteva essere diversamente, l’idea di fondo è quella di razionalizzare il funzionamento della montagna di amministrazioni pubbliche combattendo i cosiddetti sprechi, attraverso il paradigma del “governo migliore” a tutti i livelli di spesa.

Tuttavia, dato che trattasi di un colossale problema di sistema, è abbastanza evidente che serve a ben poco continuare a passare al setaccio gli immensi carrozzoni pubblici nella speranza di eliminare il maggior numero di sprechi, partendo dal presupposto di lasciare inalterato l’attuale perimetro delle prestazioni offerte coercitivamente dallo mano pubblica. Come ho spesso avuto modo di scrivere su queste pagine, il coccio rotto di Stato ipertrofico non si aggiusta con l’illusione di citato “Governo migliore”, così come sta riproponendo il renzismo dilagante. Occorre invece cominciare, pur con tutte le cautele e gradualità che un regime democratico impone, un opera di diminuzione del governo medesimo, secondo una genuina e sempre attuale prospettiva liberale. Solo restringendo il citato perimetro pubblico e le sue enormi competenze è possibile ottenere una ragionevole riduzione della spesa pubblica.

A tal proposito, è sufficiente osservare l’andamento della spesa corrente dello Stato degli ultimi dieci anni per rendersi conto della estrema aleatorietà di qualunque spending review operata all’interno dell’attuale cornice politico-burocratica. Emerge, infatti, che la spesa per cassa supera sempre, e spesso di parecchi miliardi, quella per competenza. Ciò, tradotto in soldoni, significa che le previsioni elaborate dai tecnici del Tesoro vengono regolarmente smentite dall’andamento reale dei conti pubblici. Conti pubblici che, spending review d’Egitto a prescindere, non possono essere tenuti sotto controllo da Roma, vista l’inestricabile giungla di centri di spesa che caratterizza questo disgraziato Paese di Pulcinella. Troppi centri di spesa i quali, in ultima analisi, costituiscono migliaia di collettori di consenso che il ceto politico continua ad utilizzare a piene mani.

E se Matteo Renzi pensa seriamente di risparmiare un buon numero di miliardi razionalizzando un mondo in cui vige l’idea molto irresponsabile di caricarsi sulle spalle del prossimo si sbaglia di grosso. Uno Stato che gestisce oramai il 55 per cento del reddito nazionale non si rigenera certamente contingentando matite e fotocopie. Ci vuole ben altro, caro premier.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:27