Parigi e quel che  resta dell’Occidente

Ora che l’attacco fondamentalista al cuore dell’Europa sembra concluso, ci tocca fare la conta dei danni. Il primo è quello delle vittime. Assurdo che all’interno di uno Stato tecnologicamente avanzato nella gestione degli apparati di difesa possa aprirsi una falla di tali proporzioni. Non si è trattato di una bomba che con un solo scoppio ha fatto venti morti. I combattenti islamici hanno impiegato due giorni per seminare terrore. È naturale chiedersi: se il commando fosse stato più numeroso quanti altri innocenti avrebbero perso la vita? In secondo luogo, il caduto illustre dei giorni parigini è l’Unione europea.

La straordinaria impotenza dimostrata delle autorità di Bruxelles rinvia ancora una volta alla domanda: se questa è l’Europa unita, a cosa ci serve? In terzo luogo, l’attacco a “Charlie Hebdo” rappresenta il monumento funebre a una visione “buonista” delle relazioni internazionali. Se è vero che l’islamismo non è tutto uguale, vogliamo chiederci quali siano le differenze? Possiamo accontentarci della separazione semplicistica di un islam moderato da uno radicale? È tempo che si inizi a declinare l’Islam attraverso l’influenza esercitata dalle scuole coraniche nel precisare i contenuti e i metodi del messaggio religioso. I sunniti non sono gli sciiti, così come tra i sunniti, la scuola hanafita che diede ispirazione alla religione di Stato dell’impero ottomano è cosa diversissima da quella hanbalita, da cui discendono i wahabiti e i salafiti.

Se i gruppi radicali odierni si ispirano al wahabismo e al salafismo non siamo curiosi di sapere in quali altre parti del mondo musulmano queste declinazioni dell’Islam sono praticate? Scoprire che il centro propulsore del wahabismo sia la penisola arabica, in particolare gli Stati dell’Arabia Saudita, dello Yemen e del Qatar, non ci suggerisce qualcosa? Pretendere un chiarimento con le strutture di potere che hanno giocato un ruolo ambiguo nel sostegno a tutte le forme di jihadismo, sarebbe poi tanto disdicevole?

Ma guardiamo all’Italia, visto che la Francia la sua dose di dolore e di umiliazione l’ha avuta in queste ore. Cosa rischiamo? Al momento non vi sono elementi sufficienti per affermare che siamo i prossimi della lista. Tuttavia, che il nostro Paese sia un obiettivo del fondamentalismo è fuori discussione. Roma è pur sempre la capitale della cristianità è già solo questo ci rende prede ambite nella retorica neoimperialista dei fautori del Califfato del terzo millennio. Il nostro tallone d’Achille si chiama Libia. È da quella martoriata terra che può derivare il maggiore pericolo alla nostra sicurezza. Cosa si aspetta a intervenire? Renzi fa lo spavaldo, ma è un coniglio. Aveva ricevuto pressioni da tutte le parti perché già da un anno l’Italia promuovesse un’iniziativa concreta per stabilizzare il paese nord-africano. Il Premier e i suoi hanno glissato sull’argomento. Il risultato di tanta codardia è sotto gli occhi del mondo: una polveriera pronta a esplodere. Se lo facciano entrare per bene nelle loro zucche vuote, i nostri governanti, che il fronte di difesa della nostra civiltà passa per le città e le distese desertiche della Tripolitania, del Fezzan e della Cirenaica. È là che si giocherà la partita. Noi contro loro. Piaccia o no è così che siamo messi. È la civiltà occidentale, concetto che pare faccia tanto schifo ai terzomondisti della sinistra nostrana, sotto attacco. O la difendiamo o soccombiamo.

Renzi, Mogherni, Pinotti, Napolitano, Boldrini, Gentiloni e lei Madia, da che parte state? Mi rivolgo proprio a lei, signora ministra Madia. Se non si è fatta un’idea precisa della situazione, com’è presumibile viste le sue recenti performance, accetti un consiglio. Si rilegga quello che scrisse il suo bisnonno Titta a proposito del generale Rodolfo Graziani, l’eroe della “riconquista” italiana della Libia. Lo troverà molto istruttivo.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:12