Albero degli impiccati,   proscrizioni a puntate

Che dire, che fare, che pensare dopo il secondo atto della tragicommedia offertaci dal palcoscenico politico-giustizialista? Già il nostro Diaconale, a proposito di (im)presentabilità, ha specificato limiti rigorosi e confini insuperabili nel nostro Stato di diritto. Limiti e confini ampiamente travalicati nel Paese, nello Stato, dove la lista della “Buona giustizia” ha offerto i dati stupefacenti sul milione e mezzo di rinviati a giudizio dei quali, più della metà, assolti. Per non dire dell’impressionante 42 per cento di detenuti in carcere in attesa di giudizio. E ho detto tutto, concluderebbe il sublime Totò.

Invece no, lo spettacolo continua, la farsa va avanti colorandosi di pennellate nuove a seconda delle liste dapprima annunciate, poi carpite marchiando a fuoco alcuni candidati e infine, come negli sceneggiati a puntate, pubblicate, affisse alla base dell’albero degli impiccati, come nei film western di John Ford. Eccoci così immersi non solo nella politica-spettacolo ma, ed è peggio, nello spettacolo di una politica che corre nel precipizio della sua negazione.

Già svuotata da anni, la civitas, la comunità dei cittadini, viene ulteriormente spogliata delle sue prerogative, dei suoi diritti in nome dei quali ed esercitando gli stessi, si è costruita nei millenni la polis. Certo, i più che vent’anni trascorsi ci hanno lasciato le macerie, al di là delle buone volontà, dei tentativi dei colpi di reni dei willings, di qua e di là, intenti a restaurare i principi preziosi di una politica colpita al cuore e non più ripresasi. Ma ciò che colpisce, ciò che lascia tramortiti è la pervicacia, la protervia, l’assolutismo giustizialista che si è mostrato in queste elezioni in una sorta di gara fra un certa politica e una certa magistratura, in un ondeggiare fra Tar e Cassazione, fra Primarie e Commissione Antimafia per sbrogliare un intreccio inestricabile nel quale il principio dell’innocenza è stato stracciato.

La farsa, dicevamo, e la tragedia, in una rappresentazione dove l’ossimoro costituisce un canovaccio da commedia dell’arte e, al tempo stesso, una messa in scena in un gioco di specchi dove rimbalzano sequenze da teatro delle marionette col loro burattinaio ed altre scene in cui prevale la cadenza minacciosa dell’audio che scandisce le sentenze: proscritto, espulso, messo al bando, scacciato. L’espropriazione dei diritti, nel nostro caso a candidarsi, rimbomba nei media della mainstream che ha fatto della Casta l’unico capro espiatorio del Bel paese seguendo l’onda montante del “crucifige” con le parole d’ordine della caccia all’untore.

Siccome nel Dna italico è assente il senso profondo della tragedia, ecco che la scansione delle proscrizioni si tramuta in farsa con una uscita di lato scambiata per “uscita di sicurezza”, quando è, invece, il termine del primo atto, la fine del primo tempo. Poi si apre il sipario perché “the show must go on”. Finché, anche il significato delle sentenze, per di più emesse a babbo morto, si desemantizzano, e persino il cupo richiamo storico delle proscrizioni di Silla e di Robespierre, di Vyšinskij e di Rosy Bindi si tramuta in ritmi sonori da banda da processione. Con la statua della Madonna che guarda sgomenta, compiange. E piange.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:10