L’agosto del “Corriere” che apre sul Cocoricò

Cinque pagine sulla chiusura di una nota discoteca della riviera adriatica: il “Cocoricò”. Tagli centrali in prima pagina con titoli da “Cuore”, tipo “Linea dura sulle discoteche” o interni, in terza pagina, che straparlano di “Una centrale di droga e sesso”.

La scoperta dell’acqua calda, nelle grandi discoteche d’estate ci si sballa di droga e alcool, sembra caratterizzare il corso agostano del “Corriere della Sera”. Nessuna paura di cadere nel ridicolo visto che in quel pozzo ormai la stampa italiana ci sguazza. Moralismo e banalità vengono spacciati a piene mani, più o meno come le pasticche di ecstasy et similia nelle predette discoteche. E così il triste tramonto, il sunset boulevard dell’informazione italiana, ancora una volta, come nel 1981 quando scoppiò lo scandalo P2, comincia dal quotidiano che fu di via Solferino. “Fu”, visto che per le “cazzate” dei manager Rizzoli anche quella sede è stata venduta.

Naturalmente in questo furore populista repressivo, che prende per oro colato la velina di un questore in vena di notorietà (quattro mesi di stop appaiono francamente eccessivi, anche perché i ragazzini spesso vengono già impasticcati da casa e nessuno può fare loro la lavanda gastrica preventiva), nessuno pensa ai duecento dipendenti, compresi quelli stagionali, del divertimentificio romagnolo. Che da solo dà da mangiare a un bel po’ di famiglie della Riviera, se comprendiamo l’indotto della maxi-discoteca in questione.

Come nessuno prende in mano la realtà iniziando a farsi due conti: le serate medie del Cocoricò contano sei o settemila presenze. I comuni italiani tra i mille ed i cinquemila abitanti sono 3735 (fonte Anci) e non risulta che sia possibile fare su di essi lo stesso controllo capillare su uso e abuso di sostanze stupefacenti che si pretenderebbe dal gestore della discoteca pietra dello scandalo. Né qualcuno che faccia notare come, se anche si chiudesse per sempre il Cocoricò, nella stessa zona proliferano altri divertimentifici dello sballo e spesso i giovani si fanno anche i rave party autogestiti sulla spiaggia dove possono sballarsi a piacimento.

Questo neo proibizionismo di ritorno del “Corriere”, caratterizzato nei giorni scorsi anche da due disinformanti articoli sulla marijuana e sul pericolo della sua eventuale legalizzazione, non si capisce bene se sia dovuto alla mancanza di altri temi da trattare o ad una precisa scelta in salsa Ncd.

Certo il quotidiano - che già da tempo si sta coprendo di vergogna per la propria posizione supina alle banche che ne detengono la maggioranza proprietaria, compresa un’intervista di poco tempo fa a Giovanni Bazoli che lamentava gli scarsi aiuti avuti dagli istituti di credito italiani da parte della Bce - tra piani di ristrutturazione, esodi di massa e colpi di sole estivi su discoteche e dintorni, sta dando il peggio di sé.

E l’Italia rischia di diventare l’unico Paese al mondo dove la libertà di stampa, senza bisogno di Erdogan, colonnelli greci, Putin o altri autocrati, si è invece autodistrutta per la propria insipienza. Per il proprio servilismo congenito, per la propria connivenza e corrività al potere e per i propri metodi di cooptazione dei giornalisti all’interno delle aziende. Tutti lottizzati, tutti vassalli, pochissimi i veri professionisti con un minimo di preparazione ed indipendenza. Un suicidio di massa da fare invidia al reverendo Jim Jones e alla sua setta della Guyana.

 

@buffadimitri

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 23:10