Renzi e l’alternanza obbligatoria

Ospite solitario di Giovanni Floris, dopo la meschina retromarcia del grillino Luigi Di Maio, Matteo Renzi ha mostrato energia e determinazione nel perorare la sua causa politica. Causa politica la quale, lo hanno capito pure i sassi, appare disperatamente orientata a rientrare nella cosiddetta stanza dei bottoni. Ma per quanto l’ex premier dica o faccia, il suo destino nel futuro prossimo sembra sostanzialmente segnato. Lo attende una inevitabile sconfitta nelle prossime elezioni parlamentari le cui dimensioni, tuttavia, saranno determinanti per evitare o meno una rapida emarginazione politica del personaggio.

A mio avviso, così come avevo previsto su queste pagine all’inizio della sua sfolgorante ascesa al governo del Paese, Renzi è andato incontro, alla velocità di un treno in corsa, a quella sorta di alternanza obbligatoria che ha caratterizzato l’intera Seconda Repubblica. Una alternanza che non ha mai consentito a nessuna coalizione o forza politica di riconfermarsi al secondo giro di valzer, per così dire, nonostante le mirabolanti promesse di cambiamento le quali, di volta in volta, hanno caratterizzato i vincitori politici del momento. E in questa fugace dinamica politica codesto leader dalla parlantina inesauribile ci ha messo senz’altro del suo, prospettando a piene mani approdi a dir poco miracolistici. Ma il suo errore capitale è stato quello di intestardirsi di inseguire il Movimento Cinque Stelle nel cavalcare la facile demagogia, sebbene la sua ostentata figura di grillino civile – pensiamo a tale proposito allo specchietto per le allodole della rottamazione – gli abbia consentito di raggiungere rapidamente i vertici del sistema politico.

In estrema sintesi, Renzi è stato l’ultimo della serie a sperimentare sulla propria pelle gli inevitabili contraccolpi con cui deve fare i conti chi arriva al potere prospettando scorciatoie e semplicistiche soluzioni per i nostri oramai storici e assai complessi problemi di fondo. Problemi la cui risoluzione richiederebbe tutta una serie di misure fondamentalmente impopolari e che, per questo, abbisognano di lungimiranza e tempi lunghi. Niente a che vedere, dunque, con la linea miracolistica dei bonus e dell’autoinganno collettivo adottata fin qui da Matteo Renzi. Ma oramai è tardi per cambiare strategia, affidandosi alla concretezza di una comunicazione basata sulla tragica realtà di un Paese quasi fallito e facendo leva sul residuale buon senso di una cittadinanza sempre più confusa.

A pochi mesi dalle elezioni il segretario del Partito Democratico, così come ha ribadito ai giornalisti che lo hanno incalzato a DiMartedì, sembra intenzionato a giocarsi il jolly del deficit-spending, promettendo di andare a Bruxelles a sbattere i pugni sul tavolo per farsi autorizzare a contrarre altro debito pubblico. Tutte cose già dette e già viste che, ahilui, non lo riporteranno a Palazzo Chigi.

Aggiornato il 08 novembre 2017 alle ore 19:00