Dai mattinali di questura agli agenti provocatori: benvenuti nella giungla

Io Vincenzo De Luca non lo voterei mai. Le pose testosteroniche da caudillo di provincia, la De Luca’s family (un figlio candidato alla Camera “blindato” nelle liste del Partito Democratico, un altro assessore nella giunta salernitana del delfino Vincenzo Napoli: ci vuole molto a capire che in chiunque possa sorgere il sospetto di trovarsi di fronte a una forma di familismo il più bieco?), le “fritture di pesce” del pupillo Franco Alfieri. Insomma, ce n’è abbastanza per farmelo apparire, da un lato, un campione di quei notabilati che, tra una granita e un casatiello, a seconda della latitudine, ingessano da sempre il nostro Mezzogiorno, e dall’altro, la plastica rappresentazione del declino della stagione del “renzismo” che, partito per rottamare, ha finito per divenire garante di nomenclature varie e avariate.

Pure le reazioni alla video-inchiesta del sito “Fanpage”, che ha utilizzato come “agente provocatore” un ex camorrista, e all’indagine della Procura della Repubblica di Napoli, confortano questa mia (scarsa) opinione di personaggi e contesto. La reazione sguaiata del governatore (troppo facile e comodo dissociarsi poi da chi alza le mani sui giornalisti), le dimissioni “oggi sì, domani forse” del figlio Roberto (ci vuole tanto a capire che, al netto delle questioni giudiziarie, se ti ritrovi seduto allo stesso tavolo di un ex camorrista che ti offre affari su una materia, quale quella dei rifiuti, che nessuna pertinenza ha con il tuo assessorato, ti devi dimettere senza troppe tartuferie?), una grana familiare trasformata in una immensa questione politica (che, en passant, rivela quanto siano precari gli equilibri del Pd, con un segretario che fa il guascone in tivù ma è legato mani e piedi ai portatori di pacchetti di voti). Mi pare abbastanza.

Ma, indulgendo al solito brutto vizio di leggere tra le righe, a preoccuparmi ben più delle sorti dei De Luca è il retroterra culturale di questa vicenda. I giornalisti di Fanpage hanno reclutato un ex camorrista, poi collaboratore di giustizia, e l’hanno mandato in giro a fare “l’agente provocatore”. Non si capisce bene se questa operazione sia stata il frutto di una collaborazione con la Procura napoletana, come qualcuno pare ipotizzare. Non lo credo, perché il nostro ordinamento conosce la figura dell’“infiltrato”, non quella dell’“agente provocatore” (la differenza è sostanziale: i primi sono ufficiali di polizia giudiziaria che, al solo fine di acquisire elementi di prova circa reati in corso di consumazione, si infiltrano nelle organizzazioni criminali e sono per questo scriminati, gli altri, che tanto piacciono a magistrati come Piercamillo Davigo e al Movimento 5 Stelle, che sulla scia dell’ex campione del pool di Milano ne invoca l’introduzione, sono tizi che vanno in giro a lanciare esche di reato per vedere se qualche pesce abbocca).

Accetto quindi il rischio di essere accusato, da qualche portatore della morale manettara tanto in voga, di fumisterie da avvocato (del resto questo faccio di mestiere) ma mi (e vi) chiedo: ci vuol tanto a comprendere i rischi sottesi a una deriva del genere? Chi decide da chi mandare gli agenti provocatori? E a quali fini? E ancora, ammesso e non concesso che tale figura venga introdotta per legge, chi ne guiderà le (e si assumerà la responsabilità delle loro) azioni? Evocando il titolo, pare la descrizione di una giungla, non solo giudiziaria.

Un timore fondato, questo mio, visto il livello di idiozia che pervade quadro politico e dibattito pubblico. Già li sento quelli che urleranno che per acchiappare ladri e corrotti ogni mezzo è buono, e vaglielo a spiegare che, in uno Stato di diritto, la forma è sostanza. Un’altra riflessione occorrerebbe farla, poi, sullo stato di salute del giornalismo di inchiesta. Già abbiamo assistito a carriere costruite collezionando intercettazioni e atti giudiziari. Ora ci ritroviamo con i giornalisti/poliziotti. Ma, si sa, al peggio non c’è mai fine.

Aggiornato il 21 febbraio 2018 alle ore 20:58