“Trattativa”: sentenza a 5 Stelle

Adesso tutti professeranno rispetto per le sentenze e diranno di volere attendere i 90 giorni canonici - magari ci si metterà di più visto che il processo è durato oltre cinque anni - ma queste condanne per il cosiddetto “processo trattativa” all’ex capo dei Ros Mario Mori e al suo vice Antonio Subranni (12 anni), oltre a quella al tenente colonnello Giuseppe De Donno (8 anni), per non parlare di quella – sempre otto anni – al solito ex senatore Marcello Dell’Utri, vengono come il cacio sui maccheroni per chi sogna un bel governo forcaiolo a Cinque Stelle. Non fosse altro perché il pubblico ministero che più ha incarnato l’accusa in questa inchiesta e in questo dibattimento, Nino Di Matteo, meno di una settimana fa era applaudito come una rockstar proprio alla kermesse “Sum#02” organizzata dai grillini in onore del defunto ex padrone della Casaleggio Associati.

Fossimo in campo calcistico, qualcuno sospetterebbe il cosiddetto “aiutino”. Per tutti i manettari d’Italia, che già ieri a Palermo dopo la lettura della sentenza agitavano le famose agende rosse inneggiando ai pm come se si trattasse di celebrità dello spettacolo, questa sentenza può essere percepita come un “verdetto a Cinque stelle”. E infatti puntuale è arrivato il commento via Twitter del candidato premier Luigi Di Maio: “La trattativa Stato-mafia c’è stata, oggi muore la Seconda Repubblica, grazie magistrati di Palermo”.

Anche Leoluca Orlando, predecessore di Luigi Di Maio come referente del partito degli onesti, ha esultato dicendo che “ finalmente una verità storica è diventata anche giudiziaria”.

Il pm Di Matteo ha detto pure che adesso sarebbe dimostrata la complicità politica di Silvio Berlusconi mentre Alessandro Di Battista ha parlato di “Caimano cui sta crollando sotto i piedi tutto il sistema di potere”.

Quasi un’orgia di dichiarazioni in un’ipotetica cerimonia mediatica di un dio Pan del giustizialismo, si potrebbe dire. Per la cronaca c’è anche un assolto eccellente, Nicola Mancino, la cui testimonianza non è stata ritenuta falsa. E il cui calvario giudiziario, che ha coinvolto anche l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (per tacere di quello del suo ex consigliere Loris D’Ambrosio, il magistrato che morì di crepacuore nelle more della polemica), oggi sembrerebbe finito. L’unico dei mafiosi rimasto in vita alla fine di questo processo, Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, si è beccato 28 anni. Giovani Brusca, quello che sciolse il piccolo Giuseppe Di Matteo nell’acido se l’è cavata con la prescrizione. Mentre a Massimo Ciancimino, famosa “icona dell’antimafia”, come fu definito durante un talk-show di Michele Santoro, ha avuto “solo” 8 anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, indicato come il fantomatico “signor Franco”. In compenso contro Ciancimino junior il reato di associazione mafiosa è stato ritenuto non dimostrato.

Nel bailamme del dopo lettura della sentenza era palpabile – come si accennava – l’entusiasmo mediatico dei fan del pm simbolo di questo processo Nino di Matteo, ad esempio cori di “siamo tutti Di Matteo”. Un processo che è anche il clone nel merito di almeno altri due dibattimenti che già trattarono – assolvendo Mori, Subranni e De Donno – i fatti di merito come la mancata perquisizione del covo di Riina e la mancata cattura di Bernardo Provenzano.

Per la prima volta in un’inchiesta di mafia, un teorema è stato dimostrato quasi avesse valenza matematica. Per ora ci tocca credere al fatto che Riina avesse mandato un papello di richieste al padre di Ciancimino perché lo trasmettesse a Oscar Luigi Scalfaro per accettazione, se non voleva che continuassero le stragi di mafia, e che Provenzano fosse “uno sbirro” e si fosse venduto Totò Riina. In cambio sarebbe stato protetto nella propria latitanza per altri 14 anni prima della cattura. E siamo obbligati anche a ritenere che gli eroi che presero Riina nel 1993 – dopo 43 anni di latitanza – nonché i loro capi, abbiano fatto il doppio gioco tra mafia e istituzioni.

Una sentenza che condanna la popolazione italiana, oltre che ad attendersi un Antonino Di Matteo al dicastero della giustizia in caso di governo grillino, a future serie televisive su Sky e su Netflix (è aperta la gara a chi girerà per primo “La trattativa”). Serie che potranno contribuire così all’incremento del Pil nazionale con un prodotto nostrano che da tempo si esporta in tutto il mondo, meglio dell’alta moda: la narrazione di uno Stato che è consustanziale con la criminalità organizzata.

 

 

Aggiornato il 20 aprile 2018 alle ore 19:59