In attesa della definitiva approvazione del topolino della Legge di Bilancio, dopo l’impressionante montagna di annunci e dietrofront che ha caratterizzato l’azione dei suoi artefici della maggioranza giallorossa, le prospettive economiche del Paese sembrano ancora più incerte di un anno fa.

Oramai dalle parti del Governo si tira a campare, spostando sotto il tappeto dei rinvii di tutto e di più, mentre l’opposizione sovranista continua a battere le sue grancasse sul tema dell’Europa cattiva a trazione teutonica che complotterebbe, bontà loro, contro i nostri risparmi.

Ma anche i sindacati tradizionali non ci fanno mancare nulla in fatto di demagogia allo stato puro, con in testa l’attuale leader della Cgil, Maurizio Landini. Intervenendo a Roma insieme ai vertici di Cisl e Uil, nel corso della manifestazione che ha aperto ieri “la settimana di mobilitazione per il lavoro”, l’ex capo della Fiom ha sciorinato il suo programma per rilanciare la stagnante economia italiana: più spesa, superando la Legge Fornero sulle pensioni, più investimenti pubblici e, in sostanza, il ritorno dello Stato imprenditore per risolvere le catastrofiche crisi aziendali, tra cui l’ex-Ilva di Taranto, l’Alitalia, la Whirlpool e quant’altro, con buona pace del solito anonimo contribuente, chiamato da Landini a ripianare le inevitabili perdite dei suoi sfolgoranti piani quinquennali.

Ma al di là di quest’ultima follia programmatica, tipica della sinistra più radicale, è l’intero sistema politico-sindacal-burocratico, il quale con grande fatica riesco a definire establishment, che sembra remare compatto verso gli scogli di un sempre meno evitabile fallimento economico e finanziario. Pur con qualche distinzione di rilievo su dove mettere le risorse che non ci sono – nell’ambito di un surreale dibattito tra chi, ad esempio, vuole dare priorità al taglio delle imposte e chi a quello del rilancio degli investimenti – i principali attori del nostro assurdo dibattito pubblico sono tutti schierati su una linea keynesiana della caciotta. Ovvero non toccare neppure un centesimo di quelli che una volta, prima dell’avvento dei moralizzatori da operetta a 5 Stelle, si definivano diritti acquisiti, e realizzare le loro prodigiose manovre espansive aumentando di fatto il nostro già colossale debito pubblico, immaginando miracolose crescite del Pil, così da ripagare con gli interessi i nuovi “buffi” contratti.

Ovviamente, dato che da oltre 20 anni tutto ciò non ha prodotto altro che una perenne stagnazione, si tratta di una pura illusione ad uso e consumo delle varie basi di consenso a cui i vari leader del momento si rivolgono, seguiti a ruota da buona parte di una informazione sempre piuttosto distratta sul piano dei bilanci e delle prospettive economiche di questo disgraziato Paese.

D’altro canto, per concludere riprendendo la tesi di Landini sulle pensioni, se nell’ambito di un sistema che spende in pensioni circa il 30 per cento in più della media europea, pur crescendo molto meno degli altri partner continentali e afflitto da una grave crisi demografica, ci si fa la concorrenza ad aggiungere ulteriori oneri sulle nuovi generazioni, perché di questo si tratta, la vedo molto dura per il futuro prossimo venturo. Se non si riporta l’intero perimetro pubblico entro un livello di sostenibilità, pensioni pubbliche comprese, alla fine sarà la cruda realtà a fare giustizia dei tanti, troppi cantastorie che raccontano favole dai loro pulpiti.

Aggiornato il 11 dicembre 2019 alle ore 11:00