A Natale e Capodanno Conte ci raccomanda il gioco dell’uva

Penso che siano ancora in vita coetanei di chi scrive – e anche decisamente più attempati – che sicuramente ricorderanno il mitico “gioco dell’uva”, prevalentemente di materna memoria. L’Italia dei baby boomer, che saremmo noi, mentre i nostri padri sono quelli che il “boom” economico lo hanno creato e vissuto, ha conosciuto una felicità e un benessere borghese che anche i giovani ricchi di oggi, persino con tutte le tecnologie di cui dispongono, se lo sognano semplicemente. Noi non studiavamo, né giocavamo a distanza, ma le nostre genitrici ci portavano dai nostri amichetti non sempre e necessariamente coincidenti con i compagni di scuola (ma spesso sì) e passavamo i pomeriggi tra partite di pallone a Vigna Clara o ai Parioli – o in seguito persino all’Olgiata – e giochi da camera, come il famosissimo “città, animali, cose”. E i pomeriggi continuavano spesso fin dopo le 21, specie se i genitori nostri decidevano di trattenersi a cena dai familiari dei nostri amichetti. A un certo punto però, benché l’entusiasmo di stare tutti insieme a giocare tra grandi e piccini sembrava non dovesse finire mai (né gli attori avevano intenzione di interrompere la scena) e il gioco continuava a cena dopo Carosello, magari guardando in tv “Belfagor” o il “Tenente Sheridan”, arrivava il momento di suonare la ritirata. Noi eravamo sempre tutti sudati, sia per il pallone che si giocava anche dopo cena, sia perché in genere questi incontri avvenivano di settembre o nella mitica ottobrata romana appena tornati dalle vacanze.

L’Italia tutta non ha mai più goduto di un simile momento di piacere esistenziale e benessere economico quasi allo stato puro. Sia come sia la ritirata, preceduta da solenni promesse (quasi sempre mantenute) di rivedersi se il non giorno almeno la settimana dopo, veniva suonata con una formuletta inventata dalle mamme borghesi dell’epoca (i comunisti le chiamavano con disprezzo “le dolci signore di Vigna Clara”) che veniva recitata così: “Ragazzi adesso facciamo un ultimo gioco nuovo che piace a tutti quanti, il gioco dell’uva. E ciascuno va a casa sua”. Risate, strepiti di pianti capricciosi di bambini o di piccoli adolescenti, e alla fine i genitori riuscivano a portare a casa i marmocchi e se stessi. Bei tempi, si dirà.

E che diavolo può entrarci un personaggio triste e scialbo come Giuseppe Conte in tutto questo amarcord? Semplice: tra un Dpcm e una diretta serale su Facebook di propaganda allo stato puro, proprio Conte ci ha fatto capire che a Natale e Capodanno quest’anno ognuno giocherà e brinderà a casa propria. Come nel su descritto “gioco dell’uva”. Ma in modalità “tristezza assoluta”. La depressione sanitaria imposta con senso di colpa indotto via social, al posto di quella che era la ritirata dopo una giornata di “amicizia in presenza”. Non come adesso che diventi amico – magari intimo – di chiunque su WhatsApp senza avere mai conosciuto di persona quelli con cui parli. A Natale e Capodanno, quindi, gli amici se vuoi vederli ti colleghi su “Zoom” e il calice lo elevi a distanza. Anche nell’immaginario cinematografico, invece che il Natale, nel Paese esotico del cinepanettone dei fratelli Vanzina, avremo le feste della nascita di Gesù in clausura tecnologica. Con atmosfere a metà tra la masturbazione mentale e la tristezza di repertorio. Decisamente una brutta prova da sopportare.

Aggiornato il 29 ottobre 2020 alle ore 09:26