Dalla maggioranza silenziosa alla maggioranza silenziata

Cinquant’anni fa, il 13 marzo 1971, andò in scena a Milano quella che possiamo considerare l’unica grande manifestazione popolare e pacifica di piazza che si opponeva dichiaratamente ai disordini causati dalla contestazione di estrema sinistra e alle sommosse iniziate nella primavera di tre anni prima, che avevano dato inizio allo sciagurato movimento sessantottino, con tutte le sue conseguenze drammaticamente negative di cui ancor oggi vediamo le tracce e di cui il corpo sociale dell’Europa porta ancora le ferite. Quel giorno uscì allo scoperto non tanto un movimento, bensì una concezione della società e della vita: si trattò della manifestazione anticomunista di quella che venne chiamata la «maggioranza silenziosa», un’organizzazione che raccoglieva persone della destra liberale, laica e cattolica, presenti in vari partiti e che rappresentava l’embrione di quello che trent’anni dopo sarebbe diventato il centrodestra italiano. Al di là sia dell’effimera durata di quel movimento sia della sua scarsa incisività politica, quel corteo è stato il simbolo, denigrato dalla sinistra e minimizzato dai media, del rifiuto dell’ideologia del ’68, un rifiuto poco attrezzato sul piano concreto (il comitato organizzatore si sciolse alcuni anni dopo) ma ben fondato su quello ideale.

Il rigetto dell’ideologia comunista e dei suoi bracci politici (ben coordinati, nonostante le loro divisioni interne e le loro frazioni, in un ventaglio che andava dal PCI ai gruppi e gruppuscoli della sinistra extraparlamentare) era infatti non solo un richiamo all’ordine, ma anche l’emersione di un profondo bisogno di recuperare l’identità che quella ideologia e le sue organizzazioni avevano sconvolto e volevano distruggere: l’identità spirituale e sociale tradizionale,  sia religiosa sia laica, della nazione.

Nella sua specifica definizione formale, quell’esperienza di vitalità politica e culturale rimase limitata nel tempo e circoscritta a uno spazio politico esiguo, ma nella sua connotazione di senso, il suo perimetro si estende fino all’epoca attuale e abbraccia un arco politico effettivamente maggioritario. Con il passare degli anni, infatti, la maggioranza silenziosa non è diventata minoranza e non è scomparsa, anzi, ha trovato spazio nelle pur contraddittorie alleanze di governo a trazione democristiana (centriste o pentapartitiche) dei decenni successivi e, soprattutto, ha trovato esplicitazione nel centrodestra che si è imposto nelle elezioni del 1994, 2001 e 2008, e che ancora oggi in Italia rappresenta l’orientamento elettorale prevalente. Dal 1994 quel popolo non è più rimasto silenzioso; la novità politica del centrodestra gli diede voce, sprigionando energie fino a quel momento imbrigliate, liberando persone che per decenni avevano scelto di rinchiudersi in sé invece di uscire allo scoperto, che subivano la depressione anziché liberarsi nell’espressione.

Oggi però quella maggioranza è stata nuovamente silenziata, non nel suo aspetto politico bensì nella sua sostanza culturale. Si è verificato un doppio rovesciamento: nei primi anni Settanta essa contrastò con un certo successo l’ideologia sessantottina ma non riuscì ad imporsi come forza politica; a partire dal 1994 è diventata forza politica ma non è riuscita a sconfiggere quell’ideologia che, anzi, ha via via conquistato le leve del potere culturale e mediatico, plasmando così quello strato para-politico dell’opinione pubblica che riguarda i codici di comunicazione e di comportamento sociali, intaccando le consuetudini sociali e perfino le abitudini individuali.

Un paradosso storico-politico che rivela tutta la pervasività del «politicamente corretto» e la persistente nocività dell’ideologia che lo ha elaborato. Paradossale è l’inversione dei fattori: scendendo in corteo, la maggioranza silenziosa fece sentire la sua voce, ma non riuscì a concretizzare politicamente la propria volontà; oggi non è più afona e ha configurazione politica concreta, ma viene imbavagliata sul terreno della mentalità sociale e della prassi culturale. Infatti, nonostante l’orientamento anti-sessantottino manifestatosi nel 1971 e affermatosi politicamente in modo pieno dopo il 1994, quella maggioranza di italiani ha subìto imposizioni ideologiche e schemi comportamentali concepiti proprio dal movimento sessantottesco. L’opposizione a quel movimento naufragò infatti non perché le teorie di quello sciagurato movimento fossero largamente condivise o tanto meno fossero valide, bensì perché esse dilagarono con la violenza di una piena fluviale e con l’astuzia di una manovra rivoluzionaria professionale, da quello che definirei bolscevismo postmoderno, invadendo progressivamente tutti i settori della vita nazionale e occupandone i gangli.

Nell’eterogeneo campo movimentistico, spiccano due mosse, connesse ma distinte fra piano diacronico e piano sincronico. In una prima fase (grosso modo dal 1968 al 1978, anno dell’omicidio di Aldo Moro) si verifica l’ondata di violenza che infrange gli schemi e travolge l’ordine, seminando inquietudine, terrore e perfino, in molti casi, morte; successivamente alcuni capi della violenza concepiscono l’idea di penetrare negli edifici del potere non infrangendone brutalmente le porte, ma in modo raffinato, facendo in modo che quelle porte venissero loro aperte spontaneamente. Altri ancora optarono per la lotta armata, ma questa non fu una mossa strategica, bensì il preludio di una fine ineluttabile: nel secondo Novecento nessun attacco armato di tipo terroristico-insurrezionale ad uno Stato occidentale poteva avere successo, per ragioni politiche, sociali, culturali e perfino militari. Il terrorismo comunista (così come quello neofascista) era destinato a sgonfiarsi, purtroppo non senza una lunga e tragica scia di uccisioni, e a implodere.

Invece i sessantottini più scaltri e i loro epigoni scelsero un’altra strada, quella dell’«opzione entrista», secondo scuole e logiche consolidate nella sinistra internazionale che, del resto, recuperano l’antico modello del cavallo di Troia. Da qui, attraverso queste porte aperte quell’ideologia si è infiltrata in tutti i punti nevralgici del tessuto istituzionale e sociale del nostro tormentato Paese.

Ancora oggi una grande maggioranza di italiani non condivide le imposizioni politicamente corrette frutto della violenza ideologica, e tuttavia è costretta ad accettarne i codici. Con una venatura di fatalismo, con un disincanto derivante da decenni di frustrazioni culturali, essa si sta arrendendo, presa per sfinimento dal bombardamento a tappeto sferrato dai media, dalle strutture educative, dalle organizzazioni e dai partiti della sinistra, che non esitano a usare tutti gli strumenti della comunicazione sociale, dalla persuasione fino all’intimidazione.

Il risultato è che la «rivoluzione culturale» sessantottina sta sfociando nella cancellazione culturale, nel tentativo cioè di eradere i fondamenti della tradizione occidentale. Le prove generali di questa soppressione si stanno tenendo oggi negli Stati Uniti, dove da tempo imperversano i movimenti della cancel culture, e in Europa stiamo già iniziando a vederne gli effetti. Ma per quanto diffuso sia questo orientamento decostruttivo-distruttivo e per quanto i danni che esso ha prodotto siano già giganteschi, l’esito finale non è scontato, e proprio perciò quella maggioranza tacitata deve oggi far sentire la propria volontà, valorizzando la propria visione della società e della vita, rilanciandola non solo attraverso i partiti di riferimento, ma anche per mezzo degli organismi (come per esempio fondazioni e associazioni culturali, organizzazioni di volontariato, gruppi di interesse e così via) che in questi ultimi decenni si sono formati in molti ambiti della nostra composita struttura sociale, luoghi di una possibile barriera alla penetrazione culturale delle forme di pensiero e di azione veicolate dal politicamente corretto.

Aggiornato il 15 marzo 2021 alle ore 09:15