Non è la Costituzione più bella del mondo

Non ci si commuove davanti ai peana del comico-costituzionalista, o forse del costituzionalista-comico, Roberto Benigni. Anche in apertura del Festival della canzone italiana di Sanremo, alla presenza del Capo dello Stato, il “tosco” si è sbracciato, di nuovo, nel celebrare la Costituzione italiana vigente come “la più bella del mondo”. Andiamoci piano. Vi sono capolavori della storia, come la scarsamente scritta, molto consuetudinaria, Costituzione britannica o dei lumi della ragione, come quella federale degli Stati Uniti d’America. Vi è pure un capolavoro d’equilibrio tra istanze supernazionali e sovranità nazionali, come i trattati istitutivi dell’Unione europea.

I testi giuridici, in genere, hanno una struttura con cui si mira a uno scopo: garantire diritti, disciplinare facoltà e poteri, attraverso norme cogenti che li riconoscano, istituiscano, disciplinino, vietando o consentendo comportamenti d’individui, collettività, organi, istituzioni. Molte norme del testo del 1947-’48, approvato dell’Assemblea Costituente e sanzionato – e promulgato – da Enrico De Nicola, non fanno nulla di ciò. Richiamano principi astratti e ne rinviano la disciplina alle disposizioni successive. Si è dovuto coniare la definizione di programmatiche, per indicare mere intenzioni, rinviandone l’attuazione. Ciò è inteso dal capoverso dell’articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Cosa impone? Che siano cittadini solo i lavoratori? Il lavoro è, come tutti i beni economici, scarso. Chi non riesce a trovarlo, o non è in condizioni fisiche per svolgerlo, non ha diritto di cittadinanza? Questo non lo sostiene neppure la Sinistra più marxengeliana. Anzi, attualmente, essa è schierata a difesa di un “reddito di cittadinanza” che sarebbe quanto di più contrario.

Queste norme programmatiche nascono in quanto il testo fu un compromesso tra idee di cosa sancire in contrasto tra loro: quella liberale, la cosiddetta “dottrina sociale cattolica” e quella social-comunista. Le Costituzioni reggono nel tempo, invece, quando non sono un compromesso, bensì il risultato coerente della vittoria di un sistema di pensiero su altri (ci dedicai un testo: La norma del potere, Campanotto Editore, Udine). Tanto per seguire l’esempio di cui sopra, il costituzionalismo britannico sancisce la vittoria degli old whig alla fine della Gloriosa Rivoluzione, nel Milleseicento inglese. Quella nordamericana, invece, decreta il trionfo della Destra federalista alla Convenzione di Philadelphia, alla fine del secolo successivo.

Questa nostra Costituzione nacque, invece, dai lavori di una Assemblea Costituente, vincolata al risultato di un referendum sulla forma istituzionale dello Stato, forse truccato da un ministro agli Interni socialista, con comizi convocati per effetto di due decreti luogotenenziali di Umberto di Savoia. Re Umberto II di Savoia venne poi “punito” della Costituente, convocata sulla base d’un decreto dello stesso, con esilio e confisca dei beni. La scusa, insomma, fu salvaguardare i risultati di una pronunzia referendaria, forse farlocca, cioè di una consultazione convocata dallo stesso.

Alla fine della storia, per quanto concerne i rapporti tra Capo dello Stato, Governo e Parlamento, ne è saltata fuori una “Carta” nella quale si riproducono gli equilibri, grosso modo, dello Statuto Albertino, interpretato secondo la logica cavouriana. Non in quella letterale, cui si rifece Sidney Sonnino, al contrario di quanto operarono i costituenti nordamericani. Essi riprodussero, sì, molti degli equilibri della Costituzione inglese nel XVIII secolo, ma si resero conto del mancato prestigio dinastico d’un Capo dello Stato elettivo. E lo vollero eletto direttamente dal corpo elettorale, non dal Congresso. Nella Costituente ci fu un solo “presidenzialista”: Piero Calamandrei.

Aggiornato il 13 febbraio 2023 alle ore 15:45