Liberali: evoluzione o rivoluzione?

Dalla fine del secolo scorso, discutendo di cose politiche, ho sempre sostenuto che Forza Italia meritasse il voto degli italiani, indipendentemente dal nome e cognome del suo fondatore. Silvio Berlusconi non mi affascinava più di tanto anche se, ovviamente, riconoscevo l’abilità intuitiva di un uomo il quale, non solo in politica, dimostrava di saper sempre cogliere il momento giusto per un’operazione giusta. Devo però ammettere che, con gli anni, ho finito per provare simpatia per lui, se non altro per la costanza del suo impegno e per la durevole energia positiva e ottimistica che ha saputo diffondere in ogni circostanza.

Forza Italia si era presentata all’elettorato come l’erede di varie esperienze di partito finite nel tritacarne di Mani pulite, dai centristi della Democrazia Cristiana, ai socialdemocratici, fino ai liberali. Proprio da questi ultimi Berlusconi, del resto, ha tratto il termine centrale nella sua proposta. Ossia quell’aggettivo, “liberale”, che non a caso è oggi sulla bocca di tutti. I commentatori più superficiali in questi giorni stanno indicando esattamente nella rivoluzione liberale, secondo loro mancata, la più deludente sconfitta degli anni di Governo di Berlusconi, ma chi lo pensa dimostra solo di non sapere proprio vedere al di là del proprio naso. La rivoluzione liberale, infatti, non è qualcosa che dipenda da una legge, da un decreto o da una riforma poiché si tratta di un processo sociologico e culturale che si può realizzare solo in generazioni successive. Il liberalismo, a differenza dei vari socialismi, non ha alcun vangelo da applicare, ma solo alcuni principi da porre religiosamente al centro della politica, primo fra tutti la libertà.

In questo quadro, la proposta di Berlusconi ha sintetizzato non tanto i principi del liberalismo, che peraltro egli ha proclamato ripetutamente, quanto i bisogni latenti di una larga fetta dell’elettorato nauseato, da un lato, dal puro tatticismo democristiano e, dall’altro, dal minaccioso “cambiamento” proposto dai comunisti i quali, nonostante o forse proprio per il loro rapido sganciamento dalle idee più massimaliste, rappresentavano l’esatto contrario di ciò che la borghesia italiana auspicava, cioè un contesto modernizzato e aperto alla libera iniziativa individuale.

Il successo elettorale di Forza Italia nel 1994 è stato qualitativamente simile a quello del Partito Liberale italiano nel 1963 di fronte alla “svolta a sinistra” della Dc, ma quantitativamente assai più cospicuo per il fatto che i mass media, finalmente, non erano più disponibili alla propaganda elettorale solo per mezzo di un pietoso misurino di Stato come era abitudine per la cosiddetta Prima Repubblica. Purtroppo Berlusconi, gli illustri intellettuali liberali e gli stessi importanti uomini politici provenienti dal Pli e confluiti in Fi non avevano, tuttavia, alcuna ragione di considerare la rivoluzione liberale come cosa fatta. Ciò, per un apparente paradosso, proprio a causa dell’eccessivo successo ottenuto da Fi poiché, come ricordato sopra, liberali non si diventa dalla sera alla mattina. E un partito liberale di massa non nasce sulla base di una massa che crede ai miracoli dell’azione di Governo o alla pura creatività di un singolo uomo, bensì dalla progressiva, lenta ma robusta persuasione circa la rilevanza dell’individuo, della sua capacità di esprimere il meglio di sé e della conseguente responsabilità verso se stesso e verso gli altri, verso la collettività e verso lo Stato.

È innegabile che Berlusconi, e molti altri come lui ovunque e in ogni secolo, hanno testimoniato di persona quanto un individuo sia in grado di fare, se ha volontà e pazienza, intelligenza e forza d’animo. Ma il suo esempio, sebbene stimolante per almeno una generazione di giovani, non poteva essere sufficiente. E, infatti, Fi ha perso lo slancio elettorale iniziale, non certo perché abbia cambiato orientamento ideale ma, più semplicemente, perché l’innamoramento liberale, come nel 1963, era un fuoco fatuo e non segnava affatto l’uscita dalla cappa grigia e provinciale della politica italiana e dalle sue eterne attitudini, quelle sì, populiste a carico del bilancio dello Stato.

L’eredità ideale di Berlusconi non è tuttavia solo fallimentare: oggi, in Italia, la gente si esprime più liberamente, accetta di farsi protagonista in prima persona di azioni, giuste o sbagliate, che prima venivano considerate pericolose e comunque da lasciare ai partiti. E vanta diritti individuali di ogni specie, finendo perfino nel ridicolo ma, comunque, dimostrando di essersi ampiamente emancipata dalla “tutela” dei potenti di turno e dalla loro idea strumentale della cosiddetta ‘partecipazione’ organizzata da un partito. Certamente, tutto questo non è solo merito di Berlusconi ma la sua impronta è senza alcun dubbio riconoscibile in tutto ciò che, di buono o anche di meno buono, è accaduto in Italia negli ultimi decenni. Per questo è augurabile che Forza Italia resista alla crisi che inevitabilmente la investirà, non dimenticando l’obiettivo storico che si è posta. E che vede nell’aggettivo liberale qualcosa in più di una ormai consunta e vuota espressione percepita come “corretta”.

Aggiornato il 16 giugno 2023 alle ore 09:59