Sempre la stessa storia, o quasi

Esattamente come nel 1968 anche oggi tutto è iniziato negli Usa: allora a Berkeley, oggi la Columbia University. Gli studenti californiani, quasi sessant’anni fa, protestavano contro la guerra in Vietnam e, a parte il giudizio di merito, si può almeno comprendere l’origine motivazionale della loro contestazione, poiché erano dei giovani americani come loro a dover combattere lontani da casa.

Ma oggi, quale è la motivazione dominante della protesta statunitense, subito propagatasi, come nel 1968, negli atenei europee? Ufficialmente, la contestazione è contro la dura azione militare di Israele a Gaza con la pretesa che le varie università occidentali interrompano i rapporti con quelle israeliane. Mentre il secondo obiettivo è congruo, almeno sul piano logico, rispetto alle manifestazioni come arma di pressione, il primo è ovviamente del tutto fuori luogo, dato che i manifestanti agiscono a New York, o magari a Parigi o Roma. E non possono certo premere sul Governo di Tel Aviv. Pressione che, d’altra parte, si è rivelata assai ardua persino per l’Esecutivo americano.

Ma è sul piano psico-sociologico che la cosa diviene più interessante. È innanzitutto evidente che i gruppi vocianti, e spesso violenti, sanno perfettamente che, sul piano delle decisioni politiche, la loro azione è destinata all’insuccesso. Essi sanno, inoltre, che lo scontro avverrà sicuramente, e unicamente, con le forze di polizia. Dunque, contro il potere, oggi questo ieri quello e, domani, quello che vi sarà. La discesa in piazza si regge su motivazioni che vanno ben al di là della commozione per la povera gente di Gaza e della condanna della politica di Benjamin Netanyahu. Il focus dominante è l’odio per le istituzioni liberal-democratiche delle società in cui i contestatori vivono, che si somma al protagonismo individuale col quale ognuno dei manifestanti vorrebbe disfarsi della massa cui appartiene per emergere e diffondere la propria verità ossia, alla fine, il proprio io colmo di intolleranza aggressiva.

Si tratta di una motivazione che, peraltro, non riguarda tutti gli studenti poiché, a fronte delle centinaia dei cortei, alla Columbia vi sono 34.500 iscritti, ad Austin, Texas, 50mila così come a Roma superano i 100mila. È pressoché inevitabile che qualche commentatore, sempre pronto a denunciare la violenza ma solo se viene da destra, finisca per definire i manifestanti, minoranza fra gli iscritti, come una sorta di avanguardia, cioè la parte più sensibile e attenta della massa studentesca. Mentre la maggioranza della quale si rivela amorfa, insensibile e disinteressata, appunto, alla verità.

En passant si potrebbe ironizzare sul fatto che, gli zelanti difensori dei giovani che scendono in piazza pur rappresentando, forse, il 10 per cento del totale, sono non raramente gli stessi che, quando si tratta di valutare la popolarità di una maggioranza, per esempio quella che attualmente esprime il Governo in Italia, sottolineano che, in fondo, l’ha votata solo un italiano su due. Andrebbe condotto un serio studio sociologico sui manifestanti per capire quali siano i meccanismi psicologici e poi sociologici che li inducono a comportamenti tanto superficialmente dogmatici e, comunque, illegali. Come coloro che tentarono l’assalto al Campidoglio di Washington nel 2021, anche i protestatari delle università occidentali non hanno interiorizzato alcuna norma civile. E della democrazia hanno una concezione totalmente settaria, come dimostra il fatto che la strage del 7 ottobre scorso non li ha motivati a manifestare nemmeno in una strada di periferia. Insomma, la loro passione politica, se possiamo così chiamarla, rivela la forza di un odio degno di psicanalisi e non quella di insopprimibili ideali politici o morali. Anche il coraggio che esibiscono, pur non essendo loro richiesto da alcuno, cioè quello che li spinge a blaterare e a lottare contro la polizia magari con l’aiuto di qualche bombetta, appare un po’ diverso da quello mostrato in Italia dai circa 400 studenti dell’Università di Pisa che, nel fatidico 1848, si arruolarono per combattere contro i fucili austriaci.

Altro sarebbe, ma qui occorre davvero fare appello alla fanta-sociologia, se manifestazioni di dolore e sostegno alla popolazione sofferente di Gaza si manifestassero con lunghe e silenziose nottate di meditazione e preghiera, con ceri accesi e magari raccolte di fondi per azioni umanitarie. Impensabile. Così come è impensabile che i contestatori chiedano, più semplicemente e democraticamente, un referendum fra tutti gli studenti per rilevare quanti la pensino come loro. Gli antagonisti non soffrono per gli altri: soffrono per se stessi. Essi cercano unicamente di emanciparsi dalla nullità, aggredendo le istituzioni individuandole come uniche responsabili del proprio disagio e per assaporare un quarto d’ora di potere vivendolo come la conquista di un bottino. In fondo, a questo proposito, le tesi di René Girard intorno alla violenza, il desiderio mimetico e l’implicita motivazione acquisitiva per sé rispetto agli altri da un lato e la tensione strutturale della società di Neil Joseph Smelser che origina insoddisfazione dall’altro, costituiscono il terreno psico-sociologico che accomuna i fenomeni che stiamo discutendo. Il resto, ossia le azioni fisiche e simboliche attuate nelle piazze, trovano piuttosto spiegazione nella teoria della folla di Gustave Le Bon, che individuava nel membro di una folla eccitata una specie di barbaro in preda all’istinto. Non a caso, nelle manifestazioni del genere di cui stiamo parlando ciò che viene urlato e scritto sui cartelli, studiati apposta per essere veicoli comunicativi di massa data la probabilità di essere ripresi da qualche telecronaca, è un insieme di slogan di parte, di monotone formule a senso unico.

Nelle piazze non c’è dibattito e si pretende di impedirlo anche altrove, per esempio nelle stesse università e, colmo dei colmi, con particolare determinazione se gli organizzatori sono studenti ebrei. Più barbarie di così è veramente difficile immaginare.

Aggiornato il 07 maggio 2024 alle ore 09:21