La Russia e il babau nucleare

Se «la situazione peggiora» la Russia prenderà in seria considerazione l'ipotesi di un attacco preventivo all'Europa. Non stiamo parlando della crisi degli Euromissili di 30 anni fa, ma di… ieri. La dichiarazione è ufficiale e proviene dal generale Nikolai Makarov, capo di stato maggiore delle forze armate russe. Lo ha detto in conferenza stampa, a Mosca, in vista del prossimo vertice della Nato a Chicago, dove verrà annunciata la prossima struttura della difesa anti-missile europea.

Il Cremlino giudica la costituzione di uno "scudo" Nato come un pericolo inaccettabile per la propria sicurezza nazionale. «Tenendo conto della natura destabilizzante di un sistema missilistico di difesa, cioè, la creazione dell'illusione che un attacco disarmante può essere lanciato impunemente - dice Makarov - una decisione sull'impiego preventivo delle armi di attacco disponibili potrebbe essere presa se la situazione peggiora». Tra le possibili opzioni per «distruggere la difesa missilistica in Europa» l'alto ufficiale russo ha citato «l'impiego di nuove armi di attacco a Sud e Nordovest della Russia», compreso il dispiegamento degli "Iskander" nella regione di Kaliningrad. Questi ultimi, conosciuti dalla Nato come Ss-26 "Stone", sono missili nucleari tattici che, se schierati a Kaliningrad, possono tenere sotto tiro gli interi territori di Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, parte della Germania (fino a Berlino) e della Repubblica Ceca. Facendo ripiombare la Nato nell'incubo della Guerra Fredda. Eppure pochi danno risalto alle sue parole di minaccia. Barack Obama, in un fuori-onda che ha fatto il giro del mondo, aveva pregato Medvedev di portare pazienza, perché, in caso di sua rielezione, a novembre, avrebbe assunto un atteggiamento più «flessibile» sulla questione dello scudo. Lo stesso segretario generale dell'Alleanza Atlantica, Anders Fogh Rasmussen, ieri ha gettato acqua sul fuoco, affermando che: «c'è ancora spazio per il dialogo con i russi», benché questi non parteciperanno al vertice di Chicago. Sia Obama che Fogh Rasmussen danno per scontato che quella dei vertici politici e militari di Mosca sia solo retorica. Anche se le elezioni sono già finite. E che si tratti, sostanzialmente, solo di una guerra di parole. Ma anche i russi la pensano così?

A giudicare dagli eventi degli ultimi trent'anni si direbbe proprio di no. I russi prendono sul serio quel che dicono. E se il loro capo di stato maggiore parla di possibile «attacco preventivo», vuol dire che lo sta pianificando. Non è detto che lo lanci. Ma il piano sarà pronto all'uso, nel caso il Cremlino lo giudichi necessario. La classe dirigente dell'Urss considerava "imminente" un attacco statunitense al territorio sovietico dai primi anni '80. Ha interpretato la nascita del progetto di scudo anti-missile, sin dai tempi di Reagan, solo come un espediente per dare agli Usa "l'illusione di immunità" (concetto puntualmente citato da Makarov) in caso di scambio nucleare con l'Urss. La classe dirigente militare dell'attuale Russia non ha mai cambiato idea. Anzi, interpreta la fine dell'Urss e l'ingresso nella Nato delle nazioni dell'ex Patto di Varsavia e addirittura di parte dell'ex impero sovietico (le repubbliche baltiche) come una precisa manovra di aggiramento americana per distruggere la Russia. Un grande esperto delle forze strategiche nucleari sovietiche e russe, Peter V. Pry, autore di "War Scare", uno studio sulla mentalità paranoica di comandi sovietici prima e russi poi, individua una sostanziale continuità nel pensiero militare di Mosca dai primi anni '80 ad oggi. L'ultimo periodo "caldo" della Guerra Fredda, sotto il regno di Jurij Andropov (1982-1984), segna l'inizio di questa mentalità paranoica. Andropov era convinto nell'imminenza di un attacco nucleare statunitense e ordinò una vasta operazione di spionaggio contro i Paesi della Nato, chiamata Ryan (acronimo russo di "Attacco Nucleare Preventivo"). Serviva, in sostanza, a individuare i sintomi di un attacco, per dare a Mosca il tempo di lanciare per prima le sue testate. Come racconta il dissidente (ex Kgb) Oleg Gordievskij,  Ryan, portò realmente il mondo sull'orlo del baratro nella prima settimana di novembre del 1983, quando un'esercitazione Nato (la Able Archer) fu scambiata per il preludio di un attacco. Morto Andropov, Ryan perse gradualmente la sua priorità, ma rimase attiva sino al 1992.

Nell'agosto del 1991, in occasione del Golpe di Mosca, il comando delle forze nucleari strategiche sovietiche rischiò di perdere il controllo e fummo tutti di nuovo sull'orlo di un disastro. Ancora nell'ottobre del 1993 (ad Urss già seppellita e a Operazione Ryan già conclusa da un anno), in occasione del fallito golpe contro Eltsin, rischiammo ancora la guerra nucleare. E ancora di più nel 1995, quando i russi scambiarono il lancio di un razzo per la ricerca scientifica, nella Norvegia settentrionale, per l'inizio di un attacco. Quel 25 gennaio 1995, la valigetta con i codici di lancio fu portata nello studio di Boris Eltsin, allora presidente russo. Per alcuni minuti rischiammo di essere inceneriti in un Olocausto nucleare. Eppure la Guerra Fredda era già finita da almeno sei anni. Insomma, l'idea che la Nato stia preparando un attacco alla Russia e che lo scudo serva solo a dare l'illusione di pararne la rappresaglia, è ancora viva nelle menti dei generali post-sovietici. A maggior ragione in questi tempi, quando c'è un ufficiale del Kgb (Vladimir Putin) al Cremlino, circondato da funzionari provenienti dalle forze armate o dai servizi segreti, tutti formatisi all'ombra di una "guerra imminente". Che è sempre esistita solo nelle loro menti, d'accordo. Ma che per loro è reale e può provocare, a tutti noi, conseguenze inimmaginabili.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:58