Assad continua a perdere i pezzi

Siria, un altro diplomatico di alto rango ha disertato il regime di Assad e si è rifugiato in Qatar. È Nawaf Fares, ambasciatore (ormai ex) in Iraq. Fares ha dichiarato pubblicamente il suo dissenso. Stanco della «lotta al terrorismo» lanciata da Assad e ormai degenerata in un «orribile massacro», il diplomatico è passato dalla parte degli insorti. «Invito tutte le persone oneste di questo partito – ha detto – a seguire la mia strada perché il regime ha trasformato il Baath in uno strumento per uccidere le persone e la loro aspirazione alla libertà». Ha esplicitamente lanciato un appello alle forze armate, affinché «difendano la patria da nemici stranieri» e la smettano di uccidere il loro stesso popolo.

Nawaz Fares non è il primo diplomatico siriano che volta le spalle al regime di Damasco. Lo ha preceduto Bassam Imadi, ex ambasciatore in Svezia e attualmente membro del Consiglio Nazionale Siriano, il governo–ombra dei ribelli.

La diserzione avviene nel momento “giusto” per le democrazie occidentali che premono per nuove sanzioni. Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania stanno proponendo una nuova bozza di risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Chiedono di dare a Bashar al Assad un ultimatum di 10 giorni, dopo il quale, se le violenze continueranno, entrerebbero in vigore nuove misure restrittive, sia diplomatiche che economiche. Per rafforzare queste ultime, la bozza di risoluzione prevede di implementarle sotto l’articolo 41 del Capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite: l’ultimo passo prima di un intervento armato. Sarà però difficile che venga approvata la bozza di risoluzione, perché la Russia sta facendo capire a chiare lettere come la pensi. Mosca ha rafforzato la sua squadra navale del Mediterraneo, inviando altre navi nel porto siriano di Tartus.

L’eccessiva fiducia dell’amministrazione Obama nell’azione dell’Onu è oggetto di critiche sempre più pesanti da parte dell’opposizione repubblicana. Si dovrebbe evitare di elemosinare un impossibile consenso russo, come suggerisce un recente paper pubblicato dalla Heritage Foundation, a firma di James Phillips e Luke Coffey. Gli Usa dovrebbero iniziare a muoversi da soli. La prima cosa che dovrebbero fare è una selezione di alleati locali: evitare gli islamisti e privilegiare i ribelli più laici all’interno dell’Esercito Siriano Libero. Secondo: fornire armi ed equipaggiamento solo a questi ultimi. Terzo: incoraggiare all’azione gli alleati regionali più coinvolti nella crisi (Turchia, Giordania, Kuwait, Qatar) nel caso si presenti la necessità di un intervento armato. Se dovesse esserci, questo intervento, gli Usa non dovrebbero partecipare direttamente, ma sostenere gli alleati dall’esterno, Concentrandosi, piuttosto, sulla messa in sicurezza dei depositi di armi chimiche in Siria.

Un piano del genere richiede molto impegno. Di intelligence e diplomazia. Il problema è che, rispetto a questo programma, l’amministrazione Obama ha già perso molto tempo. Prima tentando di ristabilire buoni rapporti diplomatici con la dittatura di Assad (dal 2009 allo scoppio della crisi nel 2011), poi tentando una soluzione solo all’interno dell’Onu. Tutto il tempo perso dall’America è prezioso per la dittatura siriana. Purtroppo per le sue vittime.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:10