Cina, la finta riforma del Laogai

«Signore, se per caso lei compra questo prodotto, per favore inoltri questa lettera a una organizzazione mondiale per i diritti umani. Migliaia di persone qui, che sono sotto la persecuzione del governo del Partito Comunista Cinese la ringrazieranno e la ricorderanno per sempre. Questo prodotto è costruito dalla Unità 8, dipartimento 2, Campo di lavoro Mashanjla, Shen Young, Liaoning, Cina. La gente, qui, deve lavorare per 15 ore al giorno, senza riposi al sabato o alla domenica e nessuna vacanza, altrimenti essi dovranno soffrire torture, battiture e rudi minacce, quasi nessun pagamento (10 yuan al mese [circa 1 euro])». Due mesi fa, questo messaggio era stato trovato nell’Oregon, Stati Uniti, inserito in un giocattolo Made in China per Halloween. Human Rights Watch non ha ancora determinato se si tratti di una lettera autentica, ma due elementi rispondono a quel che è già risaputo: le condizioni di lavoro descritte e l’esportazione, in tutto il mondo, dei prodotti fabbricati da prigionieri politici cinesi nei Laogai, i lager del regime di Pechino. Proprio oggi è trapelata la notizia (tramite un quotidiano di Hong Kong, il “South China Morning Post”) che il Partito Comunista Cinese voglia abolire almeno una parte del suo sistema concentrazionario, il Laojiao, la “rieducazione tramite il lavoro”. In Cina tira una leggera brezza riformatrice.

Si parla anche di una modifica del codice penale, che introdurrebbe l’obbligo, per le autorità, di annunciare il capo di imputazione dei prigionieri entro 3 mesi dalla loro incarcerazione. Finora, evidentemente, un cinese poteva rimanere in galera per anni senza neppure sapere di cosa fosse accusato. La voglia di riforme contagia anche la stampa cinese, non solo quella (già libera) di Hong Kong. La redazione del Southern Weekly, una grande testata, ha proclamato uno sciopero. La causa della protesta? Le autorità locali hanno censurato il loro editoriale di capodanno, in cui si chiedevano nuove riforme. Il solo fatto che dei redattori siano in sciopero, e che i media internazionali ne siano a conoscenza, è un fatto più unico che raro per la Repubblica Popolare. Ma quanto sono profonde queste tendenze riformatrici? Il Laojiao è un vero e proprio sotto-arcipelago del Laogai, dove i prigionieri politici, di coscienza e i piccoli criminali, sono costretti a lavorare per aziende regolari cinesi, anche per prodotti destinati all’esportazione. La differenza fra il Laogai vero e proprio e il Laojiao è minima. Nel secondo tipo di campo, i forzati percepiscono una paga simbolica. Ed è un sistema più esposto all’osservazione e alla critica internazionale, proprio per il suo collegamento diretto con il “regolare” mondo della produzione cinese.

La Laogai Research Foundation, l’Organizzazione Non Governativa fondata da Harry Wu, ex internato espatriato negli Usa, è riuscita a stilare e aggiornare una lista, ancora parziale, di prodotti confezionati nei campi di lavoro e a bloccarne l’importazione negli Stati Uniti (in Europa non esiste ancora nulla di simile). La notizia sulla riforma del sistema concentrazionario, benché tutt’altro che confermata, è coerente con la volontà di Pechino di evitare scandali internazionali. Per mantenere intatto il suo sistema politico e repressivo. La Cina fa scandalo solo quando esporta i suoi crimini e i suoi errori. Allo scandalo del latte alla melamina erano seguite punizioni esemplari e controlli di massa. Ma il cibo inquinato destinato ai soli cinesi fa ancora poca notizia e non provoca né riforme, né punizioni esemplari. La possibile abolizione del mercato degli organi prelevati dai condannati a morte (già annunciata) è scaturita dalle denunce internazionali. Perché i resti delle malcapitate vittime del regime finivano anche negli ospedali di tutto il mondo. Il trapianto degli organi, però, continuerà.

Destinato al solo “mercato” cinese. Ora, la probabile abolizione del Laojiao sarà possibile solo grazie alla segnalazione di prodotti esportati del lavoro forzato. Ma il Laogai resterà in piedi e continuerà a macinare vittime. Secondo la Laogai Research Foundation gli internati sono dai 4 agli 8 milioni in circa 1000 campi di lavoro. Alcune stime parlano addirittura di una popolazione di 18 milioni di forzati. Il Laojiao, da solo, imprigiona un popolo di 500mila (secondo le fonti cinesi) o 2 milioni (secondo fonti internazionali) di nuovi “zek”. Anche in caso di sua abolizione, tutt’altro che scontata, il Laogai rimarrà un metodo di repressione destinato a cattolici non “patriottici”, membri del Falun Gong e di altri culti banditi, oppositori politici, critici del regime. Ma diverrebbe un problema “solo” cinese, invisibile all’estero.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:49