Gli Usa sempre più al fianco degli integralisti

“Se non sei un integralista islamico, l’F-16 non te lo do”. È così che ragiona il Dipartimento della Difesa americano? L’Egitto post-rivoluzionario avrebbe dovuto ricevere 20 esemplari dei vecchi caccia americani, in base a contratti già stipulati. La prima tranche di 8 caccia era stata consegnata, senza troppi ritardi, all’Egitto presieduto da Mohammed Morsi. Adesso, la seconda consegna (4 caccia) è stata rimandata. Non per motivi tecnici, ma politici, come spiega, in una nota, il portavoce del Pentagono George Little.

A questa sequenza degli eventi, aggiungiamo adesso le etichette: Morsi, fondamentalista islamico, esponente dei Fratelli Musulmani (movimento nato e cresciuto all’insegna dell’odio contro gli Stati Uniti, visti come un caso emblematico della “corruzione” cristiana occidentale), ha ricevuto senza problemi la prima consegna di caccia statunitensi. Dopo il rovesciamento di Morsi, dovuto a una sollevazione popolare sostenuta dall’esercito, il governo attuale, guidato dal presidente Adli Mansour (un giurista laico, un moderato) subisce il rinvio della seconda consegna. Al di là dei caccia F-16, che sono pochi e comunque sono apparecchi della fine degli anni ’70 del secolo scorso, il messaggio del Pentagono è chiaro: stiamo esaminando la situazione e, se è il caso, tagliamo gli aiuti militari. Da cui l’esercito egiziano dipende quasi interamente. La retromarcia americana è scattata in seguito a una dichiarazione equivoca del comandante in capo delle forze armate egiziane, il generale Abdel Fattah al Sisi. «Io conto che il popolo scenda nelle strade, questo venerdì, per dimostrare la sua forza di volontà. E dia a me, all’esercito, alla polizia, un chiaro mandato per combattere il terrorismo e la violenza».

Come leggere queste frasi? Il venerdì, i Fratelli Musulmani, promettono sfracelli contro il governo. Quello di Al Sisi può essere letto come un appello all’unità nazionale (come il generale dichiara) perché isoli gli elementi terroristi. Oppure come un chiaro appello alla folla, perché lo elegga dittatore a furor di popolo. In ogni caso, aggiungiamo anche qui qualche etichetta per capire di chi stiamo parlando: gli ufficiali dell’esercito egiziano hanno tutti fatto carriera sotto il regime di Mubarak. Ne hanno dovuto condividere il nazionalismo, la pace con Israele e l’alleanza con gli Stati Uniti. Politicamente parlando, l’esercito era garante della tenuta dello Stato. Fra gli ufficiali, Al Sisi era uno dei più inclini (se non il più incline) all’introduzione dell’Islam nelle forze armate. Più vicino a Morsi, che non a Mubarak, il generale ha comunque svolto il suo ruolo politico di garante della stabilità: quando il popolo è sceso in strada a milioni contro il presidente islamico e i disastri che aveva combinato, al Sisi ha deposto il presidente e vegliato sulla formazione di un governo civile di transizione.

In questa fase molto delicata, gli Usa, non fornendo i caccia, facendo capire di tagliare gli aiuti militari, sperano che l’esercito favorisca una transizione democratica. Ma stanno rischiando di entrare nella questione come un elefante nella cristalleria. Se salta il tappo dell’esercito, infatti, salta anche la transizione. Se tornano al potere i Fratelli Musulmani, salta definitivamente quel poco di stabilità che ancora rimane. Per di più, senza rendersene conto, gli Usa si stanno inimicando tutte le parti: i Fratelli Musulmani già li odiavano per motivi ideologici, gli ex ribelli attualmente al governo li odiano sempre più per il loro sostegno dato a Morsi. Il fatto di usare il doppiopesismo anche nella consegna di aiuti militari (“a Morsi sì, a voi no”), non può che rafforzare questa idea.

Peggio ancora, gli Stati Uniti stanno tornando, tacitamente, sul tema di un possibile intervento in Siria. Dove i laici della resistenza sono in crisi, mentre si affermano sempre più i fondamentalisti di Al Nusrah. Il generale Dempsey, presidente degli Stati Maggiori Riuniti, ha dichiarato che sono in corso studi su “diverse opzioni” di intervento in Siria, fra cui una no fly zone o raid aerei limitati a bersagli sensibili. Magari non lo faranno mai. Ma dirlo proprio quando, in Siria, sta diventando una battaglia fra soli integralisti islamici, è ancora una volta una dimostrazione di doppiopesismo. Perché, a questo punto, l’unica area in cui gli Usa non siano intervenuti a sostegno della rivoluzione è l’Iran, che era l’unico caso in cui una piazza laica si stava sollevando contro un regime fondamentalista. In tutti gli altri casi, in Tunisia, in Libia, in Siria e, appunto, in Egitto, gli Usa, direttamente o indirettamente, volenti o nolenti, hanno finito per fare sempre gli interessi degli islamisti. Un ultimo dettaglio: il presidente degli Stati Uniti è Barack Hussein Obama.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:35