Israele e la cultura  dell’odio infinito

“L’odio consuma, mentre l’amore è eterno”. Certo, di fronte all’inutile, ennesimo eccidio di giovani vittime, c’è da chiedersi chi veramente sia immortale tra i due: il demonio o l’angelo?

Penso ai tre ragazzi israeliani, colpevoli soltanto di esistere. Mi immergo nell’orrore delle stragi di migliaia di immigrati, bambini o appena adolescenti, morti in mare in condizioni spaventose, considerati dai loro mercanti di schiavi soltanto “mangime per i pesci”. Provo orrore per le centinaia di migliaia di vittime, tra di loro moltissimi minori, delle recenti guerre civili in Libia, Iraq e Siria, delle quali noi occidentali portiamo la responsabilità storica, in termini morali e politici.

A fronte di tutto questo, l’unica risposta che mi trovo a dare è quella che tutti hanno diritto ad una vita “normale”. Chi chiede aiuto non deve avere un’alta probabilità di non vedere mai, da vivo, il volto dei propri soccorritori. Chi si sente oppresso (i Palestinesi dei territori occupati) o accerchiato, come i cittadini di Israele, deve poter trovare una soluzione concordata e di reciproca soddisfazione.

Personalmente, questo anelito di “normalità” l’ho visto anche nel popolo palestinese, andando a visitare con l’Opera Romana Pellegrinaggi la culla del cristianesimo, la cittadina della Natività, chiamata Betlemme. Tutt’intorno a me non c’erano che persone “normali” (donne in chador o burqa, di fatto, inesistenti!), che crescono ed educano i figli, esattamente come fa ognuno di noi, su questo versante del Mediterraneo. Mentre mi assoggettavo alle cure del barbiere locale (un giovane, identico a milioni di altri “nostri” che vivono sparsi nella Penisola), mi sono sentito chiedere i prezzi praticati dai suoi colleghi a Roma. Lui, grazie alla diaspora (ma, più prosaicamente, all’indigenza economica), ha parenti stretti che lavorano e vivono all’altro capo del mondo. Ma non pensa di andarsene. Vuole solo capire come migliorare il suo commercio, con nuove offerte, nuovi servizi per la persona. Così come ho litigato bonariamente con un venditore di frutta, nel bellissimo e coloratissimo mercato locale all’aperto, perché ci marciava sul cambio euro/shekel (persuadendolo con ragionamenti del tipo: “ma che vuoi davvero fregare un italiano?”). Per non dirvi la mia sorpresa, quando mi sono sentito bussare sulla spalla, e un giovane palestinese mi ha restituito con un sorriso i 50 shekel (cambiati dal fruttivendolo!) che mi erano caduti dalla tasca mentre cercavo di pagare le mie polpette di ceci.

Ecco, questa per me è “normalità”, alla quale - lo credo fermamente - aspirano tutti (tranne poche migliaia di esaltati assassini) gli 1,5 miliardi di musulmani sparsi nel mondo. Poi c’è la realtà drammatica di un regime islamico-palestinese che vive fuori dal tempo, al riparo dell’ombra nera dell’odio politico-religioso, per perseguire la sua anacronistica missione coranica, fatta di sangue e violenza, a danno di tutti coloro che rifiutano di sottomettersi. La loro arma finale, quella che l’intero Occidente teme più dell’atomica, è l’assoluto disprezzo della vita (la propria e, a maggior ragione, quella dei nemici): uomini e donne con le stimmate di Allah che indossano, con furiosa gioia, pesanti cinture esplosive per farsi “brillare” tra la folla e causare quante più vittime possibili tra i civili inermi israeliani. Questa, per noi, è la massima espressione di viltà, abituati come siamo alla diplomazia bellica ed ai codici deontologici imposti dai Trattati di Ginevra. Per loro, i fondamentalisti, tutto è carta straccia: i diritti umani; i codici internazionali; la semplice “Pietas”. Sempre della mia (certo, limitatissima) esperienza in territorio controllato dall’Autorità Palestinese voglio raccontarvi un’altra, stridente realtà, che fa a pezzi anche la più ovvia esigenza di “normalità”.

Alla Crèche di Betlemme, una splendida, coraggiosa e anziana suorina italiana ci ha detto che tra quei bimbi di nessuno (i figli illegittimi, per i musulmani, sono tali: non hanno un nome e non possono averlo!) ne esistono alcuni che vengono da incesti, perché le condizioni di promiscuità in cui vivono le fasce più povere dei palestinesi sono tremende e inimmaginabili, in barba (o in ossequio?) al Corano. Quelle nostre religiose, indifese e disarmate, combattono con la forza della fede il nemico fondamentalista comune. Eh sì, perché la loro organizzazione nasce per aiutare le ragazze madri musulmane, che partoriscono figli illegittimi (o donne sposate che hanno relazioni extraconiugali). Come ben sapete, per tutte queste donne non esiste altra legge che la “lapidazione”. Debbono “semplicemente” morire e le loro creature restare senza nome. Allora, come cercare di portare aiuto in questi casi? In modo un po’ macchinoso, ma efficace, la Crèche offre temporaneamente lavoro alle giovani donne musulmane che chiedono aiuto, facendole partorire anticipatamente e in tutta sicurezza, per rimandarle, poi, una volta sgravate, a casa loro, con un po’ di soldi (che sono il loro alibi e salvacondotto, rispetto alle famiglie) per giustificarne l’assenza temporanea dalla comunità di origine.

Per la legge islamica “quei” loro bambini non hanno e non possono avere un nome, a meno che qualcuno non li affili legalmente. Ma per farlo occorrono documenti in regola e quei bimbi “non” possono averli, perché ufficialmente non “esistono” per la legge coranica di Hamas. Ci sono stato, ho visto, ho sentito, ho provato un senso di grandissimo lutto, cosciente della mia impotenza. Ma ho anche ammirato e capito come si fa la “resistenza” non violenta, operando tutti i giorni in territorio nemico! “Hic sunt leones”, miei cari. Lo sanno questo, le centinaia di migliaia di attivisti filopalestinesi italiani, che fanno il segno delle tre dita per significare che, in fondo, Hitler aveva proprio ragione? Parentesi: per cortesia, aiutiamo quelle nostre coraggiosissime religiose. Hanno bisogno di tutto, per resistere e affermare i minimi valori d’umanità, che noi non apprezziamo, per averli tutti garantiti fin dalla nascita.

Naturalmente ho visto e sentito molto altro. Ho attraversato il muro che un Israele disperato ha eretto pur di impedire - una volta per tutte - il transito degli aspiranti suicidi e dei sicari di un fondamentalismo islamico folle, feroce e spietato. A Gerusalemme ho ascoltato la disperazione allegra di un vu’ cumprà palestinese - uno dei pochi ad avere un permesso di transito in territorio israeliano - che mi ha raccontato come gli arabi palestinesi siano i parìa (senza permesso, non possono lavorare e vivono in miseria, perché la maggioranza di loro, che risiede forzosamente nelle aree interne, non ha che qualche capra da allevare!, la casta dannata d’Israele, ovvero di una terra che, non molto tempo fa, era esclusivamente la loro. Lui, che vive di micro commerci, ha cinque figli da mantenere e, mi diceva, la sua gente è costretta a farne il più possibile, perché gli israeliani immigrati fanno altrettanto, sicché i palestinesi rischiano, in futuro, di diventare minoranza nella regione.

Avete minimamente idea dell’illiberalismo di Hamas e del suo sconfinato potere di coercizione, in base al quale chi è minimamente sospettato di voler dialogare con il “nemico” israeliano viene eliminato fisicamente? Perché una cosa è “la gente”, un’altra sono le organizzazioni politiche, come l’Olp, Hamas, Settembre Nero, che reclutano fanatici e terroristi senza scrupoli, né più né meno come Al Qaeda e l’Isis. Il “Califfato” è fatto, in buona sostanza, di pratiche genocidiarie, su base religiosa (ma anche etnica). I veri colpevoli? Gli arabi stessi, soprattutto, visto che tutta questa bella gente è sunnita! I Saud e gli Emirati hanno regalato ad Arafat un fiume di petrodollari, finiti - per la maggior parte - nei paradisi fiscali, e il resto speso in armi, acquistate dagli “amici” russi e cinesi”.

Le Madrasse (scuole coraniche) e l’odio viscerale antisionista, in realtà, sono il parto naturale di tutte le scemenze folli, razziste e naziste, scritte nei libri di testo delle scuole dell’obbligo palestinesi. Per ora mi fermo qui.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:44