Shevardnadze, protagonista   suo malgrado

Eduard Shevardnadze, la “volpe grigia”, è morto ieri, dopo lunga malattia, all’età di 86 anni. Con lui sparisce uno degli ultimi protagonisti del XX Secolo. Eroe positivo o negativo? Arrivò agli onori della cronaca internazionale nel 1985, ma la sua vera carriera iniziò nel 1972, quando venne nominato alla carica di Primo Segretario del Partito Comunista Georgiano. Nel 1972 l’Urss era all’apice del suo potere mondiale, stava vincendo in Vietnam, in Africa, in America Latina, praticamente ovunque. Foraggiava movimenti insurrezionali nel Terzo Mondo e partiti comunisti in Europa, pescava nel torbido fra i gruppi di terroristi, sia nel Medio Oriente che in Europa occidentale, manteneva una presa ferrea sui regimi satelliti in Europa centrale.

Quel modo di fare politica estera non venne certo architettato da Shevardnadze, ma costituì la pesante eredità che egli dovette gestire quando divenne ministro degli Esteri sovietico, dal 1985 fino alla caduta del regime di Mosca. Dal 1972, fino al 1985, Shevardnadze dovette occuparsi esclusivamente della “sua” Georgia e, almeno inizialmente, non fu molto dissimile dai suoi colleghi nelle altre repubbliche sovietiche: pugno duro con il dissenso interno, ospedale psichiatrico per i dissidenti, regime di tortura nelle carceri (che egli stesso implementò quando era ministro degli Interni georgiano). La sua “conversione” ad un parziale umanitarismo risale alla fine degli anni Settanta, quando iniziò ad ignorare alcuni articoli del codice penale per evitare di punire i dissidenti. Nei primi anni Ottanta permise addirittura la proiezione di un film anti-staliniano.

In quel periodo maturò l’idea secondo cui: “Se alcuni individui odiano il sistema, è solo perché il sistema è spietato con l’individuo”, come ebbe a scrivere lui stesso nelle sue memorie. Nel suo periodo georgiano, negli anni Ottanta, dunque, Shevardnadze divenne quel protagonista del “disgelo”, interno ed estero che conosciamo tutti. Nominato ministro degli Esteri da Gorbachev nel luglio del 1985, sostituì l’inossidabile Gromyko e portò una ventata di novità rispetto ad una classe dirigente che aveva portato l’Urss sull’orlo della guerra con gli Stati Uniti. Fu probabilmente proprio il terrore di una guerra atomica, ritenuta molto probabile nei due anni precedenti, che indusse il nuovo Segretario e il suo ministro degli Esteri a tentare un cambio di rotta.

Shevardnadze caratterizzò la sua politica estera come “vedere il mondo attraverso gli occhi dell’umanità”. Non interruppe, però, la guerra in Afghanistan, dove i sovietici combattevano al fianco del regime comunista di Kabul. Anzi, il conflitto, dal 1985 al 1987 conobbe un picco di violenza, con massicce violazioni dei diritti umani da parte dei sovietici. Tuttavia Shevardnadze ebbe un ruolo importante nel porre fine a un conflitto decennale. Nel 1988 Mosca decise per il ritiro e il passaggio di consegne al regime di Kabul. Nel febbraio dell’anno successivo, gli ultimi soldati sovietici passavano il confine. L’invasione dell’Afghanistan, motivo di attrito con Usa e Cina, sin da quando era iniziata (dicembre 1979), era un fatto del passato, da quel momento in poi.

In Occidente viene ricordato per i summit con il presidente Ronald Reagan e la sua controparte americana, George Shultz, con cui venne posta la parola “fine” alla Guerra Fredda. Dopo il primo vertice di Ginevra e il fallito summit di Reykjavik, dove nessuna delle due parti volle scendere a compromessi sul programma di difesa anti-missile degli Stati Uniti, nel 1987 arrivò il tanto atteso accordo sullo smantellamento delle armi nucleari schierate in Europa a raggio intermedio (INF). Un accordo difficile da sottovalutare: le capitali dell’Europa occidentale erano finalmente libere dalla minaccia dei missili sovietici SS-20 ed SS-22, Mosca cessava di essere sotto il tiro dei missili Pershing e Cruise.

L’INF sciolse il nodo centrale della tensione in Europa che durava almeno dalla metà degli anni ’70 e riaprì la possibilità di dialogare sugli assetti continentali. Nessuno, comunque, si aspettava che quegli assetti sarebbero cambiati così profondamente di lì a soli due anni. Proprio il disgelo internazionale liberò tante di quelle energie, dall’altra parte della Cortina, da rendere insostenibili i regimi satelliti sovietici. Prima la Polonia, poi tutte le altre repubbliche socialiste vennero travolte nello spazio di sei mesi, dal giugno al dicembre del 1989. Fu sempre merito di Shevardnadze l’aver gestito la crisi pacificamente. Non vi furono carri armati sovietici a Varsavia, né a Berlino, né a Praga (come sarebbe probabilmente avvenuto ai tempi di Gromyko e Breznev), le rivoluzioni anti-comuniste furono “di velluto”, un cambio di regime quasi senza vittime.

Non è ancora noto il perché di questa passività sovietica. Tutte le ipotesi sono sul tappeto. Che si tratti di un errore di calcolo di Gorbachev è plausibile. Probabilmente, a Mosca, nessuno si aspettava che, una volta aperte le urne, i partiti comunisti locali, anche quelli più “dal volto umano”, venissero spazzati via di colpo dagli elettori. Fatto sta che Shevardnadze perse il posto un anno dopo le rivoluzioni e la politica sovietica tornò nelle mani di comunisti dal volto molto meno umano. Il suo immediato successore, Aleksandr Bessmertnijk, un tecnico (era ambasciatore negli Usa) dal nome impronunciabile, durò poco. Arrivò nel mezzo della bufera, quando le rivoluzioni scoppiate in Europa centrale si erano ormai diffuse nella stessa Unione Sovietica.

Non sapendo da che parte pendere, né con i vecchi del partito Comunista che volevano riprendere il potere e imporre la legge marziale, né con Gorbachev che voleva riformare l’Urss per farla sopravvivere, Bessmertnijk venne silurato dopo il fallito golpe di Mosca (contro Gorbachev) dell’agosto ’91. La poltrona tornò a Shevardnadze, più fedele al presidente. Ma durò poco, giusto il tempo di chiudere gli occhi all’Unione Sovietica e ammainare la bandiera rossa, passando le consegne a una serie di repubbliche indipendenti e democratiche. Qui inizia la storia, molto meno eroica ed edificante, del Shevardnadze presidente della “sua” Georgia. Il suo ingresso nella politica locale non fece presagire un bel periodo di riforme e democratizzazione: venne letteralmente paracadutato a Tbilisi dall’ex Kgb dopo un golpe che aveva portato alla defenestrazione di Zviad Gamsakhurdia, primo presidente democraticamente eletto.

Dovette subito affrontare una situazione catastrofica, lascito delle politiche etniche dell’ex Urss: secessione dell’Ossezia del Sud, secessione dell’Abkhazia, guerra civile in Abkhazia, pulizia etnica dei georgiani locali. Shevardnadze non riuscì mai a trovare una soluzione duratura, accettò la presenza di truppe di interposizione della Comunità Stati Indipendenti, a guida russa, che, di fatto, fornirono protezione ai secessionisti. Diede piena autonomia a quelle regioni, non ne ammise mai la secessione, anche se non riuscì più a ristabilirvi il controllo. Sopravvisse a un tentativo di golpe : divenne famoso il suo volto tumefatto, esposto volontariamente alla televisione, dopo che i nostalgici di Gamsakhurdia avevano tentato di ammazzarlo. Riuscì, entrando quasi in conflitto con la Russia, a mantenersi neutrale nelle due guerre in Cecenia, ai confini settentrionali della sua piccola repubblica.

Ma all’interno lasciò un disastro: un’economia sovietica mai del tutto riformata, redditi medi da fame, disoccupazione, repressione del dissenso. Dopo un’elezione truccata che gli avrebbe ridato il comando nel 2003, venne defenestrato nel novembre di quell’anno dalla Rivoluzione delle Rose, la prima delle “rivoluzioni colorate” nelle repubbliche ex sovietiche. Ormai non era più noto come la “volpe grigia” della politica estera sovietica, né come il comunista che guarda il mondo “attraverso gli occhi dell’umanità”. Le sue dimissioni vennero accolte con giubilo da tutti i media internazionali: un dittatore post-sovietico corrotto era stato rovesciato dal suo popolo. Eroe positivo o negativo, dunque?

Probabilmente un non-eroe, un protagonista suo malgrado. Ebbe l’intuizione (assieme a Gorbachev) che l’impero sovietico non sarebbe sopravvissuto, se non attraverso una guerra generale o una profonda riforma. Fortunatamente optò, sempre assieme a Gorbachev, per la seconda linea. Ma riforma verso cosa? Non lo sapeva neppure lui, nato e cresciuto nelle gerarchie del Partito Comunista. E lo dimostrò anche quando fu alla guida della Georgia: messo alla prova della politica, non seppe riformare il Paese, non seppe neppure tenerlo unito. E alla fine perse tutto.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:51