Tra Israele e Hamas   tregua indeterminata

La terza guerra di Gaza, in sei anni, tra Israele e Hamas (le due precedenti, nel dicembre 2008-gennaio 2009 e novembre 2012), dopo cinquanta giorni di ostilità, sembra si sia chiusa con la tregua a tempo indeterminato, realizzata con la mediazione dell’Egitto ed entrata in vigore la sera del 26 agosto scorso. Sempre che la tregua possa reggere, perché ve ne sono state già undici di tregue violate e perché restano ancora molti punti da negoziare fra le parti, tra un mese, al Cairo.

Il bilancio è pesante. Secondo stime Onu si sono avuti 2.143 morti fra i palestinesi (di cui il 70% civili e tra essi circa 400 bambini) e 71 morti fra gli israeliani (di cui solo 6 civili). La reazione sproporzionata di Israele ai razzi palestinesi con i bombardamenti indiscriminati sulla popolazione inerme ha avuto l’effetto di ulteriormente approfondire la già radicata avversione dei palestinesi contro gli ebrei.

Dal punto di vista umanitario, quindi, la tregua a tempo indeterminato è stata certamente un risultato notevole. Ai morti, poi, bisogna aggiungere gli oltre 11mila feriti palestinesi, secondo le cifre date dalle autorità sanitarie di Gaza. Abu Mazen, che per primo l’ha annunciata da Ramallah parlando in televisione alla popolazione sfiancata dalle distruzioni (circa 30mila abitazioni, oltre a scuole e ospedali), ha accusato Hamas, emanazione dei Fratelli Musulmani, che si potevano evitare molte vittime (“conflitto prolungato inutilmente, con il continuo lancio di razzi”).

Lo scontro tra Israele e Hamas non può affatto considerarsi un conflitto locale, come vorrebbe Israele. Bensì è stato un conflitto che ha coinvolto tutta l’area medio-orientale.

Vi sono, infatti, strane alleanze. Da una parte c’è Israele con l’Arabia Saudita e l’insieme dei piccoli ma ricchissimi sceiccati sunniti del Golfo (che finanziano, però, copiosamente l’Isis di al-Baghdadi). Dall’altra parte, con Hamas di Gaza, vi sono l’Iran, gli hezbollah del Libano, gli alauiti della Siria, gli sciiti di Bagdad. L’Egitto del generale al-Sisi ha fatto da mediatore, certamente non disinteressato, riuscendo a piegare i leader integralisti (in particolare il capo di Hamas, che vive in Qatar) che sette giorni prima avevano respinto le attuali condizioni; il Cairo così ha ripreso il ruolo di guida del Medio Oriente, benché osteggiato da Obama per i suoi metodi poco democratici.

In tutti questi giochi di alleanze, lo sfaldamento delle strutture statuali di Siria ed Iraq ha permesso al Califfato di al-Baghdadi di installarsi facilmente a cavallo delle frontiere siriane e irachene. Ecco perché il conflitto tra Israele ed Hamas non può considerarsi un conflitto locale, interessando, in realtà, tutta l’area geografica del Medio Oriente.

Hamas, pur avendo subìto pesanti perdite, si è rafforzato anche agli occhi di molti palestinesi di Abu Mazen: ha saputo resistere ad Israele (20mila miliziani contro un esercito ben armato di 200mila soldati), ottenendo anche delle concessioni (l’allentamento della chiusura delle frontiere, l’estensione della zona di pesca da tre a sei miglia, che, fra un mese, passerà a 12…).

Israele, invece, non è riuscito a raggiungere gli obiettivi prefissati: non sono stati annientati né il sistema dei tunnel palestinesi né la scorta dei razzi provenienti dall’Iran. Netanyahu, poi, deve ora affrontare le dure polemiche interne, provenienti dalla destra radicale, che lo giudica essere stato debole e non risoluto. Né può essere affatto un modo di venire incontro alla destra, la decisione di progettare una nuova colonia in Cisgiordania (nella zona di Betlemme), come ha anticipato la radio militare d’Israele, perché così, afferma il movimento pacifista israeliano Peace Now, “si pugnalano alla schiena i palestinesi moderati”.

Il comportamento di Obama, che non ha voluto farsi coinvolgere direttamente nel conflitto di Gaza, infine, fa temere che si possa prefigurare una qualche intesa, anche indiretta, Usa-Iran, in chiave anti-Califfato Isis. Così come già appena accaduto con la Siria di Assad per gli attacchi aerei americani con i droni, sulle basi dei jihadisti dell’Isis in Siria, benché dagli Usa sia stato affermato che “combattere un nemico comune non fa del regime siriano un alleato dell’America”. Se si avverasse una qualche intesa Usa-Iran (essendo quest’ultimo il maggior nemico di Israele) si dovrebbe concludere che la terza guerra di Gaza non sia stata ben gestita da Netanyahu, in quanto essa, come da molti previsto, si è rivelata non un conflitto locale circoscritto, ma un conflitto, di fatto, coinvolgente tutta l’area geografica del Medio Oriente.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:50