Se anche Kobane   viene sacrificata

La città di Kobane, nel Nord della Siria, è una delle principali roccaforti curde. Si trova a pochi chilometri dal confine turco. Dalla metà di settembre si trova sotto l’assedio di circa 9000 guerriglieri jihadisti dell’Isis. E i turchi (così come gli americani presenti in Turchia) stanno a guardare. La città e i combattimenti si possono scorgere ad occhio nudo dal confine turco. Se gli jihadisti dovessero prendere la città, i locali comandanti dei Peshmerga avvertono che potrebbe scattare un massacro di circa 5000 persone, civili e militari indistintamente, in meno di un giorno. L’Isis dopo una resistenza così accanita, non farebbe prigionieri. Pericolo anche per i profughi: Kobane, in tempo di pace, contava 400mila abitanti. Quando l’assedio è iniziato, dal 19 settembre in poi, 140mila sono fuggiti verso la Turchia. Centinaia di migliaia avevano abbandonato le loro case durante la guerra civile siriana. Non è dato sapere con certezza quanti abitanti sono rimasti in trappola. Il momento del massacro potrebbe essere vicino. Il fronte si è contratto di una ventina di chilometri in tre settimane. Lunedì gli jihadisti dell’Isis hanno espugnato due alture che dominano la città (sulle quali hanno issato le loro vistosissime bandiere nere) e hanno penetrato i quartieri meridionali e orientali della città. E i turchi, neppure in questo caso, sono intervenuti. Nel corso della notte fra lunedì e martedì sono stati lanciati quattro raid aerei. Di questi, almeno uno è stato condotto dall’aviazione statunitense, gli altri tre sono probabilmente (non c’è ancora una conferma) attacchi dell’aviazione del regime siriano. I turchi hanno allertato la difesa aerea, ma non si sono mossi.

Da un punto di vista solamente politico, il governo di Ankara ha promesso di salvare la città di Kobane. Il parlamento ha anche autorizzato l’uso della forza oltre il confine siriano la settimana scorsa. Ma finora, appunto, le forze armate turche non hanno mosso un dito, se non per aiutare la popolazione a fuggire (e anche in quel caso sono scoppiati numerosi incidenti). La passività turca sta facendo saltare la fragile tregua con il Pkk, il Partito dei Lavoratori Curdi, con cui era stato raggiunto un accordo politico meno di un anno fa. Ora potrebbe saltare il negoziato e in almeno due città turche i militanti comunisti curdi si sono scontrati con la polizia turca. Se Kobane dovesse cadere sotto gli occhi dei turchi, stando a quanto annuncia il leader curdo Abdullah Oçalan, la tregua salterebbe del tutto e ricomincerebbe la guerra civile nell’Anatolia orientale. I turchi, dunque, sanno che non si scherza. A meno che non abbiano scelto deliberatamente di fare la guerra ai curdi. Non sembra questo il caso. Il premier Erdogan ha capito benissimo quale sia la posta in gioco e dunque ha deciso di specularci sopra. Sa che Kobane ha un valore militare e affettivo molto forte per i curdi e dunque ha deciso di usarla come pedina di scambio. Darà luce verde per un salvataggio della città solo in cambio di due concessioni enormi, che non riguardano direttamente i curdi, bensì gli americani: istituzione di una no-fly zone sulla Siria settentrionale e un impegno preciso per il rovesciamento del regime di Assad. Erdogan, nel settembre 2013, si aspettava un intervento di questo genere da parte della Nato e la decisione di Barack Obama di non intervenire lo aveva deluso fortemente. Ora approfitta dell’assedio di Kobane per rifarsi di quello smacco. Il suo obiettivo, comunque, resta lo stesso di allora: creare una zona cuscinetto in Siria, dove addestrare e rifornire le proprie milizie, il tutto in vista di un cambio di regime a Damasco.

Questo è il gioco (sporco) della Turchia. Ma gli Usa? Con le forze aero-navali a disposizione nel Mediterraneo orientale e nel Golfo Persico, gli Usa potrebbero benissimo bypassare ogni capriccio turco e intervenire direttamente nella questione. Per farsi un’idea della potenza di fuoco che potrebbero avere: nel 2003, tutta la guerra in Iraq, che portò alla caduta del regime di Saddam Hussein fu condotta senza poter usufruire di basi in Turchia (Erdogan aveva posto il veto anche in quella occasione). Se gli Usa non si muovono a Kobane, dunque, lo fanno perché manca loro la volontà. E questo lo dobbiamo alla strategia neo-isolazionista di Barack Obama, che intende appoggiare alleati in teatri di guerra locali, ma non guidarli. Su Kobane è stato condotto qualche raid. Finora, tuttavia, è venuta meno la potenza di fuoco che avrebbe potuto respingere, o quantomeno fermare, l’assalto di un esercito male armato quale è quello dell’Isis. Questo perché è una città curda, in territorio siriano e a ridosso della Turchia. Quindi, per Obama, è un affare di Erdogan. Punto.

La diplomazia americana è al lavoro per persuadere Ankara ad intervenire, se non altro per evitare uno scandalo internazionale: una popolazione massacrata a pochi chilometri dal confine di un Paese Nato, che ospita basi e truppe Nato. La situazione è fluida, potrebbe essere già cambiata quando questo articolo sarà in stampa. I turchi potrebbero anche intervenire nottetempo, senza preavviso: hanno già tutte le autorizzazioni necessarie per farlo. Ma Kobane è già una vergogna nella storia di questa nuova guerra mediorientale. Tutti i morti subiti dai curdi potevano essere evitati. Un bagno di sangue ulteriore può ancora essere evitato. È difficile anche solo pensare che la città possa cadere e che la sua popolazione possa essere sacrificata sull’altare di giochi diplomatici sull’intervento in Siria.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:52