Decapitazioni dell’Isis,   messaggio apocalittico

La decapitazione di massa di 20 prigionieri dell’Isis, fra cui l’americano Peter Kassig, rappresenta un salto di qualità nella guerra di propaganda del Califfato, sotto tutti i punti di vista.

“Jihad John”, come è chiamato il boia (britannico) del gruppo terrorista, questa volta non è da solo, ma alla testa di una pattuglia di altri 19 boia, uno per ogni prigioniero. L’esecuzione avviene in sincrono, dopo una lunga introduzione video, in cui il Califfato mostra la guerra degli americani, con le solite immagini di bambini uccisi sotto le bombe e i successi degli jihadisti. Poi, sempre con la musica di sottofondo scelta ad hoc, c’è l’estrazione dei coltelli, la lettura della sentenza e l’esecuzione. Ad ogni boia è affidato un prigioniero: Peter Kassig è l’unico occidentale, gli altri sono ufficiali siriani fatti prigionieri lo scorso agosto, dopo la cattura di una base aerea da parte dell’Isis. La telecamera riprende, stacca, sfuma, inquadra, zooma, esattamente come in un video di propaganda. Il problema è che è tutto vero, ripreso in diretta e trasmesso senza alcun effetto speciale. Per la prima volta si vede il sangue delle carotidi recise, ne viene addirittura amplificato il suono (o aggiunto in post-produzione) per sottolineare il dettaglio: scorre il sangue degli infedeli e tutti lo devono sapere. Non c’è alcun segno di emozione nei boia, nessun entusiasmo così come nessun segno di compassione.

E questa è proprio la prima novità di questa nuova campagna di propaganda: contrariamente ai video precedenti, tutti gli esecutori sono a volto scoperto, tranne “Jihad John” che guida la pattuglia. Per loro è un rito di iniziazione e, al tempo stesso, un esempio da dare ai loro correligionari più fanatici che ancora non si sono arruolati nelle file del Califfato. Perché, sembrerà incredibile, ma uno “snuff movie” di questo genere, può anche suscitare entusiasmo. Non solo e non tanto in malati di mente e pervertiti, ma in radicali islamici convinti che sgozzare un “apostata” (tutte le vittime sono musulmane, Kassig incluso) sia un dovere religioso. I volti impassibili degli uomini che compiono la cerimonia rituale dello sgozzamento, indicano senso del dovere, obbedienza a una missione divina, non mostrano alcuna inclinazione al sadismo. I boia sono ben riconoscibili. I servizi francesi, fra loro, avrebbero individuato un convertito francese di 22 anni, Maxime Hauchard, secondo quanto dichiara il Ministero dell’Interno. La stampa britannica ha invece rivelato il nome di un altro degli esecutori, un cittadino britannico di origine araba, Nasser Muthana. Intervistato dal quotidiano The Guardian, suo padre, sconvolto, nega che suo figlio sia uno dei protagonisti del crudele video-verità, non riconoscendolo (o non volendo riconoscerlo), aggiungendo poi che, se mai suo figlio dovesse decapitare qualcuno, meriterebbe la pena di morte. È l’ennesima dimostrazione che l’Isis è fra noi, recluta nelle nostre città, in famiglie insospettabili e continua a far proseliti.

Il fatto che gli esecutori siano a volto scoperto e che il luogo della decapitazione di massa, nella Siria del Nord, sia ben riconoscibile, potrebbe essere attribuito a semplice stupidità. Ma anche ad un grande senso di impunità e confidenza nelle proprie forze. Impunità, prima di tutto, perché la guerra della coalizione anti-Isis, per ora, ha prodotto pochi apprezzabili risultati e continua a procedere “a rallentatore”, con pochi raid e tantissime difficoltà, con alleati che fra loro non si accordano e una guida unica (gli Usa) che fanno tutto il possibile per non essere direttamente coinvolti in una nuova guerra in Iraq. Finora i governi impegnati nella lotta al nuovo terrorismo si sono mostrati culturalmente confusi, a partire dalle dichiarazioni. Per mantenere in piedi un’alleanza costituita, soprattutto, da Stati musulmani, a nessuno è permesso parlare di “Califfato”, di “Islam” o di “terrorismo islamico”. Peter Kassig, prima di venire assassinato dai suoi rapitori, si era convertito all’Islam, come tanti altri prigionieri in cattività. Sia la sua famiglia che lo stesso presidente Obama, hanno continuato e continuano tuttora a chiamarlo con il suo nome musulmano: Abdul Rahman Kassig. Nell’ultimo, disperato, appello per la vita del figlio, la madre è apparsa in video col velo islamico. Per la nostra mentalità, questo comportamento è un segno di rispetto, se non un tentativo di ammorbidire l’atteggiamento dei rapitori. Forse pensiamo che “musulmano non uccide musulmano” e ci dimentichiamo che la stragrande maggioranza delle vittime dell’Isis sono musulmani. I nostri criteri culturali sono dunque totalmente inadeguati per comprendere la guerra in corso. I vertici dell’Isis se ne rendono perfettamente conto e interpretano questa nostra totale confusione cognitiva come un segno di debolezza. E si comportano di conseguenza.

Il fatto che il luogo sia riconoscibile è un segnale, se possibile, ancora più inquietante: è Dabiq. Il luogo dell’apocalisse islamica, quando, alla fine dei tempi, le armate della jihad sconfiggeranno definitivamente i “Romani”, termine con cui ora sono indicati tutti i cristiani. Non a caso, “Jihad John” nel video accusa Obama chiamandolo “il cane di Roma”: l’America è la nuova Roma (e comunque anche Roma stessa è nel mirino, non possiamo certo permetterci sonni tranquilli neppure noi).

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:46