La danza del ventre siriana

Signor Barack Obama, lei nella crisi siriana da che parte sta? La domanda potrebbe sembrare peregrina ma non lo è perché, a osservare attentamente le reazioni di Washington al rafforzamento sul terreno delle armi russe, si potrebbe sospettare che il blocco occidentale non tenga poi tanto a sviluppare un’efficace azione di contrasto alle milizie terroriste dell’Is. Sembra che Obama e soci siano più preoccupati del sostegno offerto da Mosca al suo storico alleato, l’agonizzante Bashar Al Assad, che non dell’avanzata dilagante dello Stato Islamico ben oltre i confini siriani. D’altro canto, i precedenti non depongono a favore della lungimiranza statunitense. Già in passato l’Occidente ha scoperto a proprie spese quanto fosse stata miope e suicida la Casa Bianca a sostenere l’integralismo islamico.

Ora, Washington non ha voluto incalzare i suoi tradizionali alleati nella regione mediorientale, in particolare le monarchie sunnite del Golfo, per appurare quale sia il grado di coinvolgimento di quei paesi nel fenomeno emergente dell’Is. La questione è dirimente per comprendere quale futuro l’Occidente ipotizzi per se stesso in rapporto al cambiamento dei rapporti di forza in un’area notoriamente strategica della politica globale. A una lettura critica degli ultimi avvenimenti è evidente che la principale preoccupazione occidentale sia quella di non legittimare la permanenza al potere di Bashar Al Assad, trascurando il fatto che il dittatore siriano sia sostenuto apertamente non solo da Mosca ma anche da Teheran. Purtroppo dobbiamo confermare quanto già detto altrove ([09 settembre 2015] - Siria: la pentola che scoppierà in Occidente): le cancellerie occidentali non sanno darsi un ordine di priorità nei target da colpire che risponda agli interessi delle proprie popolazioni.

Dovrebbero chiedersi, fuori dai soliti equilibrismi politico-diplomatici, se il “pericolo” Assad sia superiore al “pericolo “Al Baghdadi”, o sia vero il contrario. Se lo chiedano e poi agiscano di conseguenza. Il Cremlino sta facendo bene il proprio lavoro. Non dimentichiamo che in Siria la Federazione Russa mantiene, a Tartus, la sua più grande base navale in Mediterraneo. Vladimir Putin non ha alcuna intenzione di mettere a rischio i propri armamenti e gli arsenali presenti in loco per assecondare lo stallo gradito all’Occidente. Inoltre, prosegue sottotraccia una crisi che, per ragioni di subiezione dei principi valoriali agli interessi economici, si tende a nascondere: il massacro delle popolazioni cristiane nell’area per mano degli integralisti islamici. Putin, al quale non difetta acume politico, si è proposto come il “ Defensor Civitatis” della cristianità, in tutte le sue declinazioni di fede, e lo ha fatto intendere anche al pontefice Francesco.

Ciò crea un effetto inedito e, a un tempo, paradossale: i russi si battono per la sopravvivenza, in Medio Oriente, dei residui delle comunità cristiane sfuggite all’annientamento mentre i cristianissimi leader occidentali, in nome della pace universale e dei buoni affari con le leadership musulmane, assistono ai massacri senza muovere un dito. Per adesso le fonti ufficiali del Cremlino si limitano a riferire della presenza in Siria di addestratori che affiancherebbero elementi dell’esercito regolare nell’uso delle armi di fabbricazione russa. Sarebbe auspicabile che Mosca rompesse gli indugi e muovesse, senza troppi scrupoli, un’offensiva radicale per ripulire l’area dalla presenza dei tagliagole islamici. Il mondo non potrebbe che essergliene grato. Se, al contrario, dovesse ancora una volta prevalere l’attendismo suicida delle “soluzioni politiche della crisi”, come vorrebbero le cancellerie occidentali, che tradotto vuol dire: spartirsi la Siria prima d’intervenire, Dio abbia pietà delle nostre anime perché la millenaria civiltà del Mediterraneo vedrebbe la fine dei suoi giorni.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:02