I diritti umani in Iran ed i volti del regime

Pubblichiamo un rapporto-appello del Comitato Italiano Helsinki in occasione della visita in Italia del presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, Hassan Rouhani, prevista per il 14 e 15 novembre prossimi.

Esiste un’ala “moderata” del regime?

La dittatura religiosa al potere in Iran non è responsabile solo di gravi e frequenti violazioni dei diritti fondamentali sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, ma anche dell’istituzionalizzazione e dell’applicazione sistematica di tali violazioni. Le varie fazioni del regime fondato sul velayat-e faghih ( l'assoluta supremazia del potere religioso), in Occidente note coi nomi di “moderati” e “oltranzisti”, sull’oppressione della popolazione non hanno avuto mai diverbi. Tutt’al più la loro discordia si esercita sui metodi. Ad esempio, dall’agosto 2013 ad oggi, durante la presidenza del mullah Hassan Rouhani che passa per un “moderato”, in Iran sono state impiccate oltre duemila persone.

Nel sistema teocratico iraniano la quasi totalità del potere è nelle mani del “leader spirituale”, Khamenei; i presidenti della repubblica hanno il compito di mostrare all’estero un diverso volto, funzionale ai diversi momenti storici. Dunque considerare la dialettica “moderati”-“oltranzisti” nell’ottica del miglioramento dei diritti umani o di un cambiamento del comportamento del regime teocratico è del tutto fuori luogo. Le urla di Ahmadinejad, i sorrisi di Khatami, i proclami di Rouhani sono tattici e funzionali al sistema, che rimane uguale a se stesso.

L’attuale presidente dei mullah è stato un membro dell’apparato di sicurezza (che nella repubblica islamica significa repressione). Fu proprio Hassan Rouhani, in qualità di segretario del Consiglio di sicurezza nazionale, l’artefice, nell’estate 1998, della sanguinosa repressione degli studenti universitari. Il regime teocratico al potere in Iran è strutturalmente antidemocratico sia per la sua Costituzione, che fa discendere la legittimità di ogni legge dalla discrezionalità del vali-e faghih (il “supremo giureconsulto”), sia per le sue prassi consolidate. Il rito delle elezioni in Iran è un gioco per ingannare l’Occidente e una lotta per il potere residuo tra fazioni dello stesso regime dittatoriale. I candidati devono passare al vaglio del Consiglio dei Guardiani, che devono certificare il loro buon rispetto dei dettami dell’Islam secondo l’interpretazione ideologica dominante. Questo meccanismo serve prettamente ad escludere i candidati della fazione avversa. Quindi la volontà del popolo non ha alcuna effettiva conseguenza sul risultato delle urne.

Esportazione di integralismo e terrorismo, crimini contro la popolazione

La parola “Islam” è utilizzata da un pugno di uomini, che da decenni ha in ostaggio un intero popolo, per giustificare sia l’oppressione interna che l’esportazione dell’integralismo islamico e del terrorismo in tutto il Medio Oriente. Ormai la presenza massiccia e sistematica del regime iraniano in Iraq, in Siria, in Libano, nello Yemen e in altre aree di crisi della regione è nota anche alla stampa internazionale.

Il numero elevatissimo delle esecuzioni politiche (una strage di 120mila persone dall’inizio degli anni Ottanta ad oggi) e le ingerenze nei Paesi vicini dimostrano che il regime iraniano non si è mai sentito stabile senza il ricorso a un’estrema violenza e ha bisogno di esercitare ancora in futuro la stessa politica.

Il regime è stato condannato per ben 62 volte da vari organismi delle Nazioni Unite. Nel dicembre 2014 l’Assemblea generale ha rinnovato la condanna per le gravi e continue violazioni dei diritti umani. Anche il Segretario generale Ban Ki-moon, nella sua relazione annuale il 25 settembre, ha espresso forti preoccupazioni sulla situazione dei diritti umani in Iran. In particolare, Ban Ki-moon si dice preoccupato per le impiccagioni dei minori e per quelle in pubblico e dichiara: “C’è stato un costante trend in ascesa nel numero delle esecuzioni dal 2008 al 2015, con un picco di almeno 750 nel 2014”. Nella sua relazione parla anche dei casi di evidenti violazioni dei diritti delle donne: “Si stima che tra marzo 2013 e marzo 2014 oltre 2,9 milioni di donne abbiano ricevuto ammonimenti per non aver osservato il codice di abbigliamento”.

Il primo giugno del 2014 Gholam Reza Khosravi è stato impiccato per la sua simpatia verso i Mojahedin del Popolo e per averli sostenuti con un contributo in denaro. È evidente in tale caso l’uso politico delle esecuzioni capitali da parte del regime: Khosravi aveva semplicemente sostenuto la televisione satellitare del movimento delle resistenza iraniana. Molti sono i lavoratori e i blogger perseguitati e eliminati: fra loro Sattar Beheshti, arrestato il 30 ottobre 2012 e morto in carcere quattro giorni dopo sotto atroci torture. I suoi compagni in carcere confermarono di aver visto Sattar tra il 31 ottobre e il 1° novembre con il corpo distrutto e completamente tumefatto. Era stato percosso violentemente al momento dell’arresto, poi in carcere appeso al soffitto con le braccia legate dietro la schiena e colpito ripetutamente al collo e alla testa.

La tortura nelle carceri iraniane non si applica in casi isolati, ma è una prassi che fa parte della legge dello Stato teocratico, sotto il nome di tàzir. Il 13 settembre 2015 è morto in carcere un attivista per i diritti sindacali, Shahrokh Zamani – secondo il medico del carcere, per un infarto. Amnesty International ha dichiarato che Zamani godeva di buone condizioni di salute, sebbene negli ultimi giorni avesse leggere vertigini. Amnesty, che aveva anche recentemente denunciato la scarsa condizione sanitaria nelle carceri iraniane e la detenzione di molti malati in condizioni disumane, afferma che dal primo gennaio al primo luglio del 2015 il regime iraniano ha impiccato 694 persone, una media di tre al giorno. Con questo macabro ritmo alla fine dell’anno il numero degli impiccati supererà la soglia di 1000; nel 2014 è stato di 750 persone.

In due anni della presidenza del “moderato” Rouhani, in Iran fra gli impiccati vi sono stati 17 minorenni e 37 prigionieri politici; 125 delle impiccagioni sono avvenute in pubblico. Fra gli ultimi casi, quello della ragazza Salbehi, impiccata il 13 ottobre in un carcere di Shiraz per l’accusa di avere ucciso il marito sei anni prima, quando ne aveva 17 – e che non aveva avuto alcun avvocato durante gli interrogatori.

Accordo sul nucleare e ulteriore “via libera” alla repressione

L’accordo nucleare dei 5+1 produce fatalmente l’intensificazione della repressione in Iran. Ogni dichiarazione di apertura verso l’Occidente, dovuta alla disastrosa condizione economica del regime, è stata compensata con l’aumento dell’oppressione in Iran e con il conseguente incremento delle impiccagioni. Sulla stessa falsariga dobbiamo leggere la “disponibilità” del regime a negoziare sulla questione nucleare, sempre sotto l’egida di Khamenei. Con un Paese al tracollo economico, il regime con l’accordo nucleare dei 5+1 ha puntato a risolvere alcuni dei propri problemi, dovuti soprattutto all’endemica corruzione e all’incapacità degli uomini al potere.

L’anno scolastico iraniano si è aperto il 23 settembre mentre in carcere si trovano dieci insegnanti per le loro attività sindacali. Molti ragazzi non frequentano la scuola per l’assoluta povertà e molti istituti, almeno il 50%, si trovano in condizioni pericolose; ma si incarcerano insegnanti con l’accusa di avere agito “contro la sicurezza nazionale”. Il numero delle impiccagioni, che ha avuto un’impennata dopo l’accordo nucleare, le numerose aggressioni con l’acido che hanno sfigurato i volti di donne accusate di non essere coperte secondo i dettami della teocrazia, gli arresti di insegnanti e sindacalisti confermano che il regime non può continuare a sopravvivere senza oppressione.

In questo quadro, è grave che i governi occidentali abbiano omesso del tutto dal protocollo degli incontri la materia dei diritti umani, cosicché il regime dei mullah si sente svincolato da ogni impegno a rispettare le pertinenti convenzioni internazionali.

In questo modo i governi democratici tradiscono i loro stessi valori fondanti, danneggiano il popolo iraniano e finiscono, contrariamente alle loro intenzioni, con il fomentare di fatto la crisi mediorientale, dato che in essa il regime iraniano ha un ruolo determinante non come parte della soluzione, ma come essenza del problema.

Un impegno per l’Italia e per tutti i Paesi democratici

Se il regime iraniano si è presentato al tavolo dei negoziati è stato per la pressione delle sanzioni economiche, non per una sua volontà di cambiamento. I rapporti diplomatici, economici, culturali con il regime dei mullah devono essere per lo meno condizionati al rispetto dei più elementari diritti della popolazione iraniana. Questo atteggiamento non soltanto rispetterebbe gli stessi valori dei governi democratici occidentali, ma risulterebbe anche nella loro convenienza. Occorre intraprendere una politica lungimirante e più attenta ai valori fondanti delle Costituzioni democratiche così come del Diritto internazionale in materia di diritti umani.

L’Italia, da tempo avanguardia nell’elaborazione e nella tutela dei diritti a livello internazionale, deve chiedere conto al presidente dei mullah Rouhani della situazione dei diritti umani in Iran e non fermarsi a parole di circostanza. Deve essere sostenitrice attiva, come sua tradizione, dei diritti e chiedere al regime iraniano di fermare l’orrenda pratica delle esecuzioni capitali sistematiche.

Stringere la mano al rappresentante di un regime che impicca sulle piazze, cava gli occhi e amputa gli arti, applicando l’arcaica regola del taglione nel senso più violento, e che incarcera, tortura e uccide gli oppositori dovrebbe causare un profondo senso di disagio. Il Governo italiano non può e non deve rimanere insensibile a quelle atrocità; non lo vuole il suo popolo, non lo vogliono le sue tradizioni e la sua civiltà giuridica.

Le istanze democratiche del popolo iraniano non troveranno mai risposte dal regime teocratico al potere: ciò avverrà solo attraverso il cambio democratico del regime. L’onore e l’onere di questo cambio compete al popolo iraniano e alla sua resistenza organizzata; ma i governi occidentali non devono schierarsi dalla parte del carnefice.

 

(*) Il Comitato Italiano Helsinki per i diritti umani fu fondato a Roma nel 1987, traendo ispirazione dall’Atto Finale della Conferenza di Helsinki sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa che, nel 1975, affermò con chiarezza il legame fra sicurezza internazionale e rispetto dei diritti umani. Tra i fondatori e i primi aderenti vi furono Ennio de Giorgi, Sergio Mercanzin, Jiri Pelikan, Carlo Ripa di Meana, Francesco Rutelli, Antonio Stango (che ne è l’attuale segretario) e Paolo Ungari. Il Comitato da allora svolge analisi, dibattiti, campagne d’informazione, ricognizioni in aree di crisi, promuove iniziative parlamentari, contribuisce all’osservazione di processi sociali, al monitoraggio di elezioni, redige rapporti e li diffonde. Come altri Comitati Helsinki, esercita un’attenta azione di lobbying per i diritti umani presso istanze statali e internazionali, sostiene il funzionamento della Corte Penale Internazionale nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite e l’abolizione della pena di morte in tutto il mondo. I suoi membri partecipano frequentemente all’annuale “Human Dimension Implementation Meeting” dell’Osce a Varsavia, al Consiglio per i Diritti Umani a Ginevra, ad incontri al Parlamento Europeo e al Consiglio d’Europa. Nelle sue attività, il Comitato collabora con numerose istituzioni e con altre organizzazioni non governative, fra le quali la Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, Nessuno Tocchi Caino e Amnesty International.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:04