Centralismo democratico, anarchia repubblicana

Nelle elezioni primarie statunitensi si stanno confrontando due modelli di partito opposti e per questo la competizione è asimmetrica. Lo si vede già dopo le prime due tornate elettorali, nei piccoli Stati dell’Iowa e del New Hampshire. Il Partito Democratico si sta rivelando, a dispetto del nome, molto gerarchico. Ma per questo motivo rischia lo scollamento con la sua base. Il Partito Repubblicano, al contrario, sta attraversando un periodo di crisi perché è troppo anarchico. E per questo rischia di candidare un uomo impresentabile alla Casa Bianca.

Il Partito Democratico, sin dai primissimi colpi della sua campagna elettorale, ha già praticamente deciso chi sarà il suo candidato alla Casa Bianca: Hillary Clinton. Ha fatto terra bruciata attorno a lei. Ha eliminato tutti i possibili concorrenti forti, a partire dall’attuale vicepresidente Joe Biden, che ha deciso di rinunciare alla nomination. Le ha lasciato contro candidati improponibili, come il comico Vermin Supreme, o deboli come Martin O’Malley e un’unica alternativa anti-establishment, Bernie Sanders, un anziano socialista vecchio stampo, con un passato filo-sovietico e molto difficilmente adatto a presiedere la nazione guida del mondo libero. Nonostante tutto, Hillary Clinton sta arrancando. Nell’Iowa è riuscita a strappare una vittoria risicata, un sostanziale pareggio con Sanders i cui esiti si sono decisi solo dopo 12 ore di votazioni nel caucus del piccolo Stato rurale. E nel New Hampshire, Sanders ha stravinto con il 60 per cento dei voti. Ma anche in queste condizioni, le gerarchie democratiche stanno facendo vincere la Clinton a tavolino.

Nell’Iowa la ex first lady è riuscita ad aggiudicarsi la maggioranza dei delegati in palio (i delegati sono poi coloro che voteranno materialmente per il candidato presidente, a livello nazionale: le elezioni sono infatti indirette), nonostante la sua vittoria sia stata molto risicata, ma pare ci sia stato qualche trucco. Nel “precint” di Grinnel, un delegato ha ricevuto l’ordine dal Partito di passare da Sanders alla Clinton e il presidente di seggio non è stato neppure informato del cambiamento. È una piccola differenza, ma con margini così ristretti conta molto. In New Hampshire, è ancor più evidente come il Partito voglia decidere al posto degli elettori: benché Sanders abbia ottenuto il 60 per cento dei voti popolari, a far la differenza sono 8 “superdelegati” nominati dal Partito e svincolati dalla volontà popolare. Di questi 8, ben 6 sono vincolati alla Clinton. Quindi, benché Sanders si sia aggiudicato 13 delegati contro i 9 della Clinton, grazie ai “superdelegati” la Clinton se ne aggiudicherà 15, quindi ha vinto nonostante sia stata sonoramente bocciata dall’elettorato. È vero che ci sono ancora due delegati ancora da assegnare, ma l’esito del voto nel New Hampshire non rifletterà comunque l’esito delle urne. La Clinton ha ottenuto poco più della metà dei voti rispetto a Sanders, ma finirà col vincere o ottenere un pareggio.

Il Partito Democratico, con questi metodi tutt’altro che democratici, può controllare la situazione e risparmiarsi sgradevoli sorprese. Tuttavia dovrà poi fare i conti con l’elettorato nel suo complesso, quando si tratterà di mandare la Clinton alla Casa Bianca. Le primarie sono infatti uno strumento (introdotto proprio dai Democratici) per tastare il polso all’elettorato, prima di accettare la sfida per la presidenza. Se il polso dell’elettorato sarà del tutto ignorato, se la Clinton andrà a competere contro un avversario repubblicano nonostante la base non la voglia, il rischio è quello di perdere le elezioni generali.

Il problema speculare e opposto si registra invece in campo repubblicano, dove competono personaggi tanto pittoreschi quanto estranei alla tradizione conservatrice del Grand Old Party. Il primo e più rumoroso di questi è proprio il candidato che attualmente si è aggiudicato il maggior numero di delegati: Donald Trump. Ex sostenitore dei democratici, egocentrico, istrione, abortista e sostanzialmente statalista in economia, si è dato solo recentemente (nel 2012) una riverniciatura repubblicana/conservatrice. I vecchi del partito, ovviamente, diffidano di lui, i media conservatori, dalla National Review a Fox News, gli sparano contro. Ma proprio per questo piace a un elettorato pronto a votare qualunque uomo sia estraneo ai giochi della politica nazionale. Grazie all’estrema apertura democratica dimostrata dal partito della destra americana, è entrato a gamba tesa fin da subito nelle primarie, ha raccolto consensi a man bassa e ha creato un caso politico che ormai è mondiale.

Contro di lui si schiera un altro anti-politico, Ted Cruz, che prende voti dalla destra religiosa e del Tea Party (di cui è espressione) e in questo modo è riuscito a vincere nel caucus dell’Iowa. Ma Cruz ha già perso nel New Hampshire, dimostrando di non saper reggere la competizione con Trump fuori da ambienti rurali più che favorevoli alle sue idee. L’altro anti-sistema, il libertario Rand Paul, il primo a candidarsi seriamente nel 2015, si è rivelato un flop e si è ritirato. E l’establishment repubblicano? Contrariamente a quello democratico, ha dimostrato di non saper tenere la situazione sotto controllo. Dalla sua parte, infatti, si sono schierati troppi uomini, che si cannibalizzano l’un l’altro. Fra loro sono rimasti solo John Kasich (arrivato secondo in New Hampshire) e Marco Rubio (arrivato terzo in Iowa), mentre Jeb Bush non sfonda. Gli altri si sono ritirati, ma nel frattempo hanno prodotto molti più danni ai compagni di establishment che non a Trump. E se dovesse vincere proprio lui le primarie? Sarebbe certamente conforme alla volontà della base repubblicana. Ma verrebbe molto probabilmente bocciato dall’elettorato americano nella corsa alla Casa Bianca. Va bene l’anti-politica perché è divertente, ma quando è troppo… è troppo.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:53