Venezuela anno zero, come finisce una democrazia

Del Venezuela si parla poco, ma i morti nelle proteste di piazza sono già 50. Il successore di Hugo Chavez, il presidente Nicolas Maduro, il 1 maggio ha annunciato l’elezione della nuova Assemblea Costituente. Da due giorni ha anche fornito un’indicazione della data: entro fine luglio. Non si tratterà di un’Assemblea Costituente votata dal popolo con suffragio universale, ma di 500 membri nominati da consigli comunali, associazioni della società civile, sindacati, corporazioni. Di fatto, considerando che i “socialisti del XXI Secolo”, o “bolivariani”, fedeli al presidente Maduro, controllano ormai tutto il mondo associazionista, si tratterà di un organo di regime che scriverà una nuova carta suprema per prolungare a tempo indeterminato il proprio potere.

L’opposizione denuncia che si tratta di un’elezione incostituzionale. Ma i giudici della Corte Suprema, allineati al presidente, hanno però emesso una sentenza che dà ragione a Maduro e conferma l’elezione indiretta della prossima Assemblea. Che si tratti di un pronunciamento contro la democrazia lo afferma la sentenza stessa. Per i giudici supremi, infatti, è una “nuova visione del concetto di sovranità, e il superamento storico dello Stato di diritto della democrazia rappresentativa”. Di fatto, i giudici hanno seppellito, anche formalmente, quel poco che era rimasto dell’ordinamento democratico e liberale del Venezuela. Puntando al “funzionamento efficace della democrazia sociale e partecipativa”, eufemismo per chiamare la vera e propria dittatura del proletariato instaurata da Chavez negli ultimi vent’anni e ulteriormente inasprita dal suo successore Maduro.

Gli scontri di piazza, fra oppositori e “collettivi” (vere e proprie squadre di picchiatori bolivariani, i pretoriani del presidente Maduro), sono scoppiati ben prima della diatriba costituzionale. La crisi finale del sistema democratico venezuelano è iniziata dopo le ultime elezioni parlamentari, il 6 dicembre 2015, le prime vinte dalle opposizioni democratiche riunite nella coalizione del Mud. Guidate da Jesus Torrealba, le opposizioni democratiche hanno ottenuto una vittoria netta, con il 56 per cento, oltre due milioni di voti in più rispetto al Psuv, il partito socialista fedele a Maduro. Il capo di Stato, però, non ha accettato la sconfitta e ha rifiutato il dialogo. Subito dopo le elezioni, all’inizio del 2016, ha costituito una sorta di parlamento parallelo, un’assemblea “comunale” rappresentativa delle comunità venezuelane (fedeli a partito bolivariano). Fra il presidente e il “suo” organo legislativo da una parte e l’Assemblea Nazionale dall’altra si è instaurato un dialogo fra sordi. Nel frattempo, la ricetta socialista del bolivarismo, cioè collettivizzazione, nazionalizzazioni e controllo politico dei prezzi, presentava il conto: attualmente con uno stipendio medio un venezuelano può comprare l’equivalente di tre polli. L’inflazione è esplosa a livelli della repubblica di Weimar, la borsa nera è ormai il mercato principale usato dai venezuelani, i supermercati sono vuoti. Saccheggi nelle città per accaparrarsi i beni di primo consumo sono diventati uno spettacolo quotidiano. L’esaurimento delle scorte medicinali ha generato un’emergenza umanitaria. Anche la comunità italiana in Venezuela è in pericolo, tanto che il Parlamento italiano ha votato una mozione (primo firmatario Pierferdinando Casini) a tutela dei nostri concittadini nello sfortunato Paese latino americano.

E’ in questo contesto che sono scoppiate le proteste di piazza. L’opposizione, in un primo momento si limitava a una protesta difensiva, perché venisse riconosciuto il ruolo costituzionale del parlamento, per evitare che venisse esautorato dall’esecutivo. Oltre a questo, i partiti democratici hanno sempre chiesto la scarcerazione dei prigionieri politici, che giacciono in condizioni critiche nelle carceri del Paese (anche casi di tortura sono stati denunciati in patria e da Amnesty International nel suo rapporto 2017). Falliti i primi tentativi di mediazione fra presidente e parlamento, nel maggio 2016, la coalizione Mud ha regolarmente raccolto le firme per un referendum revocatorio, con cui è possibile licenziare il presidente. Ma il referendum non è mai stato indetto. Fallito definitivamente anche il negoziato promosso dalla Santa Sede, lo scorso gennaio, Maduro ha iniziato a prendere contromisure gravi. Ha nominato quale suo vice presidente Tareck Zaidan El Aissami Maddah, un venezuelano-arabo di origine siriana, fedele al partito e sospettato di avere legami anche Hezbollah (non sarebbe assurdo: Hezbollah ha un suo partito in Venezuela e la sua presenza nel Paese, almeno nei tempi di Chavez, è solida). A lui ha conferito nuovi poteri, quali il Comando Antigolpe, organo che coordina la sicurezza del presidente. Il 10 gennaio è scaduta l’ultima opportunità per indire il referendum revocatorio chiesto dalla maggioranza parlamentare. Dopo quella data (secondo anno dall’inizio dell’amministrazione Maduro), non è più possibile indire nuove elezioni: i poteri passerebbero al vicepresidente Maddah. Di fatto, il negoziato è servito a Maduro solo per prendere tempo. A questo punto, la maggioranza parlamentare ha iniziato a chiedere le dimissioni del presidente e nuove elezioni. Anche in questo caso, però, il capo di Stato ha accusato di complotto la coalizione dei democratici e si è trincerato nelle sue posizioni.

La violenza nelle strade e nelle piazze del Venezuela sta attualmente degenerando in una vera e propria guerra civile. L’esercito è intervenuto, a partire dal mese scorso, teoricamente per sedare gli scontri fra manifestanti democratici e “collettivi”, in pratica per chiudere gli accessi alle città e arrestare gli oppositori. I democratici denunciano che Maduro stia mettendo in atto un vero e proprio colpo di Stato dall’alto, attuando piani militari a lungo preparati.

Aggiornato il 24 maggio 2017 alle ore 21:28