Papa Francesco, un gesuita in Iraq

In Iraq si è celebrato uno storico incontro dall’enorme valenza politica, quello tra Papa Francesco e l’ayatollah Ali al-Sistani. Il novantenne Ali al-Sistani, assente dalla scena pubblica per scelta, è la massima autorità spirituale degli sciiti in Iraq e sabato sei marzo, a Nadjaf dove è sepolto l’Imam Ali, genero di Maometto e figura fondatrice dell’Islam sciita, ha ricevuto in un colloquio privato il capo del Cattolicesimo. L’incontro è stato definito diplomaticamente di “cortesia” ed è durato quarantacinque minuti; oltre agli operatori del media Vaticano, nessun altro è stato ammesso ad assistere o riprendere la conversazione. Tuttavia, le foto scattate e rese pubbliche, che ritraggono il Papa vicino alle autorità sciite presenti, ovviamente senza mascherina, suggellano un percorso di dialogo con l’islam che Bergoglio ha sempre sostenuto.

La visita in Iraq è la quarta di Papa Francesco in un Paese musulmano dopo Egitto, Emirati Arabi e Marocco. In un suo precedente incontro con il sunnita Ahmad Muhammad Al-Tayeb, Grande Imam dell’Università egiziana di Al-Azhar, nel 2019, Bergoglio pronunciò la frase: “Il messaggio è il nostro incontro. L’incontro di sabato è sicuramente un messaggio, e dovrebbe essere una garanzia data dal dignitario sciita, molto rispettato e più volte intervenuto in questi anni a difesa delle minoranze, al fatto che i cristiani in Iraq meritano considerazione, protezione e libertà di esprimere la loro fede.

Terminato il vertice interreligioso tra il pontefice romano e l’autorità sciita, i portavoce di entrambi hanno diffuso comunicati stampa scongiunti ma convergenti nelle prospettive; il Vaticano ha sottolineato l’importanza della collaborazione e dell’amicizia tra le comunità religiose dell’Iraq, sia per il bene della nazione che del mondo intero, ringraziando al-Sistani per aver, in questi anni, assunto la difesa dei più deboli e dei perseguitati. Il messaggio politico del Papa è orientato proprio in questa direzione: la difesa del popolo iracheno e della popolazione cristiana. Ricordo che la comunità cristiana in Iraq è una delle più antiche e una delle più articolate dal punto di vista confessionale. Si divide in particolare tra caldei, cattolici, armeni, ortodossi, copti, siriaci, melchiti e protestanti. Durante la presidenza del sunnita e capo del laico partito Baath, Saddam Hussein, tra il 1979 ed il 2003, i cristiani erano oltre il sei per cento del popolo iracheno, circa 1,5 milioni. Oggi sono circa 400mila fedeli e rappresentano appena l’uno per cento della popolazione. Durante la sempre più rimpianta presidenza di Saddam Hussein, il vicepresidente era un certo Tareq Aziz cattolico-caldeo, uomo di equilibrio riconosciuto internazionalmente e rappresentante di un Cristianesimo arabo pacato, equilibrato, colto e tollerante.

Si tende a ricordare la tragedia dei cristiani in Iraq, facendo riferimento alle atrocità commesse dall’Isis, soprattutto durante la crisi degli yazidi nel 2014, ma va detto che l’esodo è iniziato molto prima. I cristiani iracheni, negli ultimi trentacinque anni, sono stati risucchiati lentamente in un baratro che li ha trascinati inesorabilmente verso gli inferi, prima con la guerra Iraq-Iran, dal 1980 al 1988, poi dalla Guerra del Golfo, frutto dell’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq il 2 agosto 1990. Poi con l’invasione americana del 2003 e la guerra civile. Prima dell’arrivo dei terroristi dello Stato islamico, il numero dei cristiani si era già ridotto. A Mosul in particolare, che ospitava buona parte della ricca borghesia cristiana, era già operante una malavita che si sosteneva con rapimenti, furti che si sviluppavano nel quadro di un banditismo areligioso che però colpiva prevalentemente i cristiani.

Queste proto-persecuzioni hanno avuto luogo anche in altre culle tradizionali della minoranza cristiana come Bagdad e Bassora, ma l’area geografica più colpita è stata nel Kurdistan iracheno. Al momento, dati certi sulla presenza cristiana in Iraq non ci sono, ma è certo che il loro esodo è stato massiccio. Molti sono emigrati all’estero fuori dal vicino Oriente, altri si sono localizzati nella laica Giordania, ma molti non sono fuggiti. Erbil, nel Kurdistan iracheno, ha raccolto molti di questi cristiani, altri si sono adattati a vivere nella Pianura di Ninive, in particolare a Qaraqosh, diventata la più grande città cristiana del Paese. Intorno a Mosul, dove ad oggi pochi cristiani sono rientrati, troviamo presenze anche in villaggi come ad Hamam al-Alil, non lontana dal fiume Tigri, dove tra uno Zigurat e resti di cantieri italiani, come quello di Al-Shemal o più a sud di Baiji, sopravvivono nella speranza di un futuro.

Nella città patrizia di Mosul, nella quale ho vissuto per tre mesi nel 1990, le autorità cattoliche non hanno trovato una chiesa adatta ad accogliere il Papa; infatti sono state generalmente rase al suolo. Nel territorio tra Ninive e Mosul, erano presenti quattordici chiese, alcune risalenti al V, VI e VII secolo, abbattute dall’ignoranza dei jihadisti dell’Isis. È stato quindi necessario costruire un palcoscenico tra le rovine di quattro chiese di confessioni diverse, tra cui la chiesa di Al-Tahira, che ha più di mille anni, per rimarcare con la presenza del Papa e di ogni rappresentate cristiano e islamico, la speranza di una condivisione interreligiosa per un futuro imminente.

L’opera politica del Papa sarà proprio questa: favorire con le congiunture giuste, con l’islam sciita e sunnita, il rientro di quasi un milione di cristiani iracheni nella loro terra. Ciò significa che questi fedeli dovranno riavere una casa, un lavoro, tornare ad insegnare anche nelle Università, un ruolo politico nelle Amministrazioni anche locali. E la possibilità di ricreare un mercato, un commercio, un business, una banca, ma soprattutto una Chiesa. Devo ammettere che, anche se in alcune circostanze non condivido le “azioni papali”, questa volta ammiro e condivido a pieno un’opera diplomatico-politica che solo un gesuita, come Papa Francesco, poteva pensare e “cucire”, ricordando anche “l’opera” di un altro gesuita, il polacco Piotr Skarga. Altro “cesellatore” della Storia.

Aggiornato il 08 marzo 2021 alle ore 09:20