DAP, serve un centro di coordinamento

La settimana scorsa al convegno tenutosi presso il carcere di Saluzzo si è parlato dei problemi relativi al Piano carceri e delle diverse forme di partenariato tra sistema pubblico e privato. Aggiungiamo a nostra volta che nel “Piano carceri” stilato a suo tempo, peraltro in continuo work in progress, si legge: «L’amministrazione, considerate le limitate risorse finanziarie disponibili, ha svolto un accurato studio teso ad individuare soluzioni alternative di finanziamento, valutando la possibilità di ricorrere a taluni istituti normativi quali la locazione finanziaria, la finanza di progetto e la permuta». Il Governo già un paio di anni, fa ben consapevole della carenza finanziaria, intendeva includere i privati nel “disegno risolutivo del piano per l’edilizia penitenziaria”.

A parere di chi scrive, già prima della fase di realizzazione del disegno risolutivo del piano non sarebbe stato sbagliato promuovere una pianificazione di più ampio respiro culturale che stabilisse in modo organico e multidisciplinare le possibili operazioni da compiere a fronte dell’intero patrimonio esistente sul territorio: riuso, riassetto, dismissione, cessione, ristrutturazione, locazione, ecc., di taluni edifici penitenziari ed aree pertinenziali all’interno di un paradigma di azioni da concordare attraverso una specifica normativa anche con i diversi enti locali e uffici competenti. Tale processo sistematico di valutazione delle preesistenze architettoniche e ambientali, se ben impostato con le altre funzioni ministeriali, avrebbe potuto trasformarsi in una grande opportunità per innescare un ciclo virtuoso in rapporto diretto con le attività presenti sul territorio. In tal modo individuando utilmente, all’interno delle diverse filiere, nuovi ambiti di recupero sociale del detenuto come momenti alternativi, non disarticolati e sporadici come ora avviene, destinati all’applicazione della pena.

Tutto il percorso, collegato alle catene produttive locali, ai servizi sociali, alle strutture cooperativistiche e di volontariato, ai valori architettonici ed ambientali espressi dalle diverse realtà territoriali, potrebbe ricucire finalmente le molte connessioni funzionali sistemicamente interagenti tra apparato pubblico e iniziativa privata attualmente in grande sofferenza per la nota crisi economica. Non tutti sanno che l’attuale patrimonio carcerario italiano è costituito da un 20% di edifici realizzati tra il 1200 ed il 1500 (medio evo e rinascimento!), un 60% costruito tra il 1600 ed il 1800 e solo il rimanente 20% in tempi successivi. Questi dati aprono scenari inquietanti nel momento del difficile confronto con il “valore” di questi edifici: manufatti abbandonati a fronte di un inevitabile e progressivo degrado, costruzioni e siti di alto valore architettonico ed ambientale. L’incapacità “strutturale” di rispondere alla necessità di adattamento a moderni criteri di funzionalità, unita all’alta qualità storico-culturale ed economica di cui sono portatori questi edifici, determinano altissimi costi di manutenzione per la quotidiana gestione dello status quo, con bassi rendimenti funzionali in termini di qualità e sicurezza. Non solo in questo settore, come è noto, è proprio la questione della “competenza” burocratico-culturale, che unita al potere di diniego, rappresenta la più complessa tra le cause che rendono inattiva la capacità di risolvere il problema di come amministrare questo enorme patrimonio.

È il motivo primario che scoraggia l’intervento privato nei confronti di una vasta varietà di operazioni volte alla cessione, alla vendita, alla dismissione, al recupero, alla ristrutturazione. Ragioni ufficiali che, dietro lo schermo delle diverse “competenze”, dell’apparente complessità delle operazioni, spesso tendono a dissuadere in partenza qualsiasi proposta innovativa in ordine alle eventuali scelte da compiere in termini di riuso o dismissione di questi edifici. Circa questo enorme patrimonio edilizio, il DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del ministero della Giustizia) comunicò, per voce dell’allora suo dirigente, Franco Ionta, che per reperire la somma necessaria al completamento del Piano destinato alla costruzione di nuovi istituti, sarebbe stato necessario “proporre l’alienazione e la dismissione di immobili, soprattutto se situati nei centri storici, e prendere in considerazione la possibilità di vendere parte del patrimonio edilizio penitenziario vincolando l’acquirente a corrispondere quanto necessario con modalità contrattuali da definire”. Vero è che, prima di poter addivenire a tali corrette ipotesi, sarebbe necessario definire qui e subito una modalità coerente e strutturata concernente i criteri d’intervento nei confronti dell’intero patrimonio edilizio. Una sorta di “sistema a rete”, avente come obiettivo il possibile coinvolgimento, oltre che dell’imprenditoria privata, anche delle cooperative di ex detenuti, sulla base di programmi di riabilitazione sociale e qualificazione professionale che prevedano misure alternative al carcere ed il reinserimento nel ciclo produttivo destinato al riuso, sotto altre forme e funzioni, dello stesso patrimonio edilizio carcerario.

In questo grande sforzo di sintesi e pianificazione strategica, determinante dovrebbe essere l’impegno ed il coinvolgimento dell’imprenditoria privata come vero e proprio motore dello sviluppo. Interventi di project financing, leasing e pianificazione concordata e comunque di partenariato tra pubblico e privato, insieme ad un’innovativa visione urbanistica, così come ebbi a scrivere nel mio libro “L’Universo della detenzione” (Mursia 20011), se non scoraggiati dalla burocrazia, se ben governati da un Centro decisore nelle mani del DAP e da efficienti e motivati apparati dello Stato, possono rappresentare già oggi una grande opportunità per la futura soluzione del problema penitenziario e contribuire significativamente alla ripresa del sistema economico e produttivo. Le amministrazioni locali, soggetti primari che tradizionalmente svolgono attività di rilevazione e catalogazione sul territorio, consentirebbero di disporre fin da subito di un vasto panorama sufficientemente chiaro sullo stato attuale delle preesistenze architettoniche destinate alla reclusione per poter riflettere sulle possibili iniziative da intraprendere in ordine alle diverse esigenze funzionali. Scopo della ricognizione mirata sarebbe quello di dare vita ad “aree didattiche” di informazione tecnica destinata alla formazione professionale dei detenuti, mediante un continuo confronto su obiettivi, modalità e strumenti da utilizzare per una revisione delle procedure lavorative nel settore penitenziario. Per aiutare una riflessione sul processo di rilevazione e valutazione sistematica del patrimonio edilizio, sarebbe opportuno elaborare un quadro ragionato degli esiti delle attività di catalogazione, organizzato per tabelle ordinate per tipologia di beni, stato di conservazione, potenzialità di riutilizzazione secondo piani alternativi per aree territoriali e per annualità.

In tal modo, verrebbe a configurarsi una necessaria conoscenza delle azioni da intraprendere per il futuro circa le possibili scelte di conservazione, ristrutturazione, riuso, riconversione funzionale, dismissione, cessione, in base alle esigenze di diversa natura provenienti dal contesto territoriale e dalle esigenze specifiche del piano carceri. La complessità della costruzione di nuovi moderni istituti, unita allo stato attuale del patrimonio penitenziario esistente ed alle scelte che riguardano in generale il “Piano carceri”, evidenziano la necessità che il DAP, a parere di chi scrive, organizzi territorialmente Centri di coordinamento interdisciplinare in grado di sovrintendere, pianificare, modulare ed indirizzare, secondo il contributo sistemico delle diverse competenze specifiche, tutti gli interventi all’interno di un quadro unitario di riferimento. Confidiamo che queste, come altre idee emerse dal dibattito di Saluzzo, possano essere di sprone per rimuovere l’inerzia burocratica nella quale affonda rapidamente il Paese. Con tutte le pericolose conseguenze prevedibili.

(*) LIDU, Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 19:43