Edilizia penitenziaria, ripensare la reclusione

Quando parliamo di “Giustizia” non dimentichiamo che essa si esercita (anche) all’interno di strutture edilizie che si chiamano carceri. A seconda di come queste sono costruite, gestite e mantenute verifichiamo nello stesso tempo la qualità e l’efficienza del servizio-giustizia.

Non tutti sanno che l’attuale patrimonio edilizio penitenziario italiano è costituito da un 20% di edifici realizzati tra il 1200 e il 1500 (praticamente tra il Medioevo e il Rinascimento!); da un 60% costruito tra il 1600 e il 1800; e solo il rimanente 20% è stato realizzato successivamente. Questi dati aprono scenari inquietanti se consideriamo anche il “valore” storico di questi edifici, la loro qualità architettonico-ambientale e la loro effettiva, quanto tragicamente bassa corrispondenza funzionale a quelle che dovrebbero essere le finalità di una pena rispettosa dei diritti umani e conforme al dettato costituzionale che, al terzo comma dell’art. 27, fissa il principio di umanizzazione della pena: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. La Costituzione con questo articolo ha inteso bandire ogni trattamento disumano e crudele che non sia inscindibilmente connesso alla restrizione della libertà personale.

Edilizia penitenziaria dunque: manufatti spesso di qualità, abbandonati a fronte di un inevitabile e progressivo degrado, assolutamente inadatti ad ospitare la funzione penitenziaria ad essi attribuita nel tempo passato. Quasi l’ottanta per cento di queste costruzioni risale a edifici realizzati oltre duecento anni fa. Castelli medioevali trasformati in penitenziari, conventi ed antichi edifici, spesso presenti nei centri storici delle nostre città, forzatamente destinati alla detenzione; complessi edilizi presenti su molti dei territori delle nostre isole più belle destinati ad avvilire, con la loro funzione inadatta, ambienti naturalistici di grandissimo pregio. A parte l’enorme costo che comporta la manutenzione di questi edifici, lo spreco ambientale e la difficoltà di un reale collegamento funzionale col territorio, sussiste di fatto una strutturale incompatibilità con le nuove concezioni della funzione e con la finalità della pena. Funzione e finalità che, alla luce della normativa vigente, nel rispetto dei diritti dell’individuo e delle esigenze di un corretto recupero riabilitativo del detenuto, debbono trovare quelle attrezzature, spazi, ambienti e dotazioni che consentano a chi è detenuto un’effettiva reintegrazione, un miglioramento comportamentale e, se del caso, una concreta occasione per imparare un lavoro.

Nonostante i ripetuti appelli del Presidente Giorgio Napolitano, le sanzioni della Corte Europea e le tante proteste che provengono da quella parte della società più sensibile, emerge con tutta chiarezza l’incapacità di saper rispondere con criteri innovativi alla domanda di nuovi modelli funzionali nella concezione del carcere. Questa incapacità è il prodotto di un intricato complesso di competenze, di poteri consolidati, di inadeguatezze culturali di saper compiere scelte innovative anche in questo campo. Si preferisce il più comodo mantenimento dello status quo con ciò consolidando, oltre gli altissimi costi umani per le condizioni di rassegnazione in ambienti non idonei per i detenuti, anche pesanti oneri destinati alla manutenzione per la quotidiana gestione dell’impianto carcerario, con bassissimi rendimenti funzionali in termini di qualità. Rinunciando irresponsabilmente alla sicurezza per coloro che scontano la pena, da un lato, e per coloro che lavorano all’interno delle carceri, dall’altro. Si pensi ad esempio al gravissimo problema delle misure antincendio, collegato alla mancanza di ambienti protetti o alle scale di sicurezza; si pensi al fattore della funzionalità destinata alla componente impiantistica, molto carente quando se non addirittura inesistente. Si pensi ad esempio all’uso irresponsabile di bombolette a gas usate nelle celle dai detenuti per preparare cibi o talvolta per inalare.

Tali problematiche di cui poco o nulla si parla, perché spesso nella questione dell’edilizia carceraria all’interno del Dap controllore e controllato coincidono anche per ciò che riguarda il rispetto della normativa antincendio, interessano non solo coloro che sono nelle carceri per scontare la pena ma interessano molto da vicino anche tutte quelle figure che per motivi di lavoro vivono nelle carceri condividendo disagi, pericoli, rischi e responsabilità di altissimo livello. Interventi determinati in una nuova cultura della pianificazione, se non scoraggiati dalla burocrazia, se ben governate da un Centro decisore e da efficienti e qualificati apparati dello Stato, eventualmente sostenuti dall’intervento privato nei modi e nelle forme tutte da studiare, possono rappresentare oggi una grande opportunità per la futura soluzione strategica del problema penitenziario, del sovraffollamento, della stessa qualità degli edifici e degli ambienti destinati alla detenzione.

La complessità delle problematica destinata alla costruzione di nuovi moderni istituti, unita allo stato attuale del patrimonio penitenziario esistente e alle scelte che riguardano in generale il “piano carceri”, evidenziano la necessità di organizzare un Centro di coordinamento (possibilmente) interdisciplinare in grado di sovrintendere, pianificare, modulare e indirizzare secondo il contributo sistemico delle diverse specifiche competenze, tutti gli interventi all’interno di un quadro unitario di riferimento. L’urgenza di soluzioni per l’oggi non deve escludere programmi e scelte più coraggiose per il domani.

Il compito del “Soccorso azzurro” per la detenzione, problematica della quale da molti anni mi occupo come responsabile del settore per la Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, intende svolgere in questo campo il doppio ruolo di evidenza critica e di contributo di idee per soluzioni alle quali l’Amministrazione penitenziaria può guardare con interesse. Mai dimenticando in tale impegno che se la detenzione ha uno scopo deve sussistere il principio che la vera cura per la riabilitazione è il lavoro. Ci auguriamo che le prossime misure che tratteranno la sicurezza e il recupero del detenuto diano spazio a tutta una serie di provvedimenti finalizzati a trovare situazioni di lavoro dignitose alle persone in carcere. Non per un fatto di buonismo o per un malcelato rispetto al politicamente corretto. No, proprio perché va sempre più aumentando la domanda di sicurezza dentro e fuori le carceri, per usare meglio le poche risorse a disposizione, occorrerà trovare effettive opportunità di lavoro alla persona detenuta che sia disposta a mettersi in gioco. Solo questo può garantire la migliore sicurezza permanente che lo Stato possa dare. Ormai è dimostrato che ogniqualvolta si è riusciti a trovare delle risposte lavorative serie nei confronti delle persone detenute, esse non sono più tornate in carcere.

Concludo domandando quanto costerà allo Stato e alla sicurezza sociale tenere in carcere una persona, per poi metterla fuori in condizioni peggiori di quando è entrata. Noi saremo vigili attenti sospingendo lo Stato a rispettare se stesso e la propria Carta costituzionale.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:17