Addio Ben Bradlee,   la verità prima di tutto

Aveva ottenuto la medaglia della libertà (Presidenzial Medal of Freedom) nel 2013. Vissuto per 26 anni a capo del Washington Post, divenuto per antonomasia il quotidiano del Watergate, lo scandalo che fece dimettere per la prima e unica volta il presidente degli Usa. Il mondo dei media piange la scomparsa di Benjamin C. Bradlee, morto all’età di 93 anni dopo alcuni di sofferenza colpito dall’Alzheimer e da demenza senile. Il giornalismo per lui è stato più di una professione. “Era - ha osservato il presidente Barack Obama - un bene pubblico vitale per la democrazia”. Ai suoi collaboratori e ai giovani che tornava ad incontrare in redazione dopo la pensione continuava a ripetere: “la verità prima di tutto”.

Sotto la sua guida una nidiata di reporter ha raccontato con meticolosità storie che hanno fatto capire il mondo in tutti i suoi risvolti, anche i più segreti. Un giornalismo onesto, obiettivo (anche se l’obiettività non è mai un preciso punto di riferimento a confronto della verità e della realtà), indipendente, di proprietà privata. Ben Bradlee “è stato un direttore geniale”, hanno ricordato Bob Woodward e Carl Bernstein, i due giovani cronisti autori dell’inchiesta che portò nel 1974 a rilevare retroscena della Casa Bianca e del Pentagono (spionaggio nei confronti del Partito Democratico da parte dei Repubblicani al governo con Richard Nixon) e che fecero esplodere un vasto terremoto politico americano; vicende che colpirono l’immaginazione pubblica e suscitarono l’interesse del mondo cinematografico di Hollywood.

L’interpretazione di Bradlee dell’attore Jason Robards nel film “Tutti gli uomini del presidente” gli fece conquistare l’Oscar nel 1976. Ben Bradlee era una delle poche persone che conosceva l’identità della fonte dello scandalo. Solo nel 2005, quando morì, si seppe che “Gola profonda” era l’agente dell’Fbi W., Mark Felt. L’inchiesta giornalistica dei due giovani reporter, appoggiati e sostenuti dal direttore a cercare la verità, costituisce una lezione per quanti vogliono realizzare giornalismo d’approfondimento. Vinse uno dei 18 premi Pulitzer conquistati dal Washington Post. Prima di quell’agosto del 1974 (Nixon annunciò in tv dalla Casa Bianca le dimissioni l’8 sera), il coraggio e l’intuito di Bradlee lo portarono, d’intesa con l’editore Katharine Graham, a pubblicare alcuni articoli sui cosidetti “Pentagon paper”, relativi a 7mila pagine di documenti segreti della guerra del Vietnam.

Di fronte al tentativo dell’amministrazione Nixon di bloccarli, il Washington Post e il New York Times (che li avevano ricevuti da una fonte riservata) ricorsero alla Suprema Corte, che ne permise la pubblicazione. Il giornalismo di Bradlee era di ampie vedute, per lui una storia era una storia e la stampa come sentinella dell’opinione pubblica non doveva avere alcun timore reverenziale nei confronti del potere politico, e tanto meno per quello economico e culturale. Un duro colpo lo subì anche Bradlee nel 1981, quando una giovane cronista ottenne il premio Pulitzer per la storia di un tossicodipendente di otto anni. La vicenda non era vera, era stata inventata. La giornalista confessò, restiuì il premio e si dimise dal giornale. Per Bradlee non era sufficiente e scrisse un commento che è un insegnamento per tutti i media: “La credibilità di un giornale è il suo bene più prezioso. Dipende molto spesso dall’integrità dei suoi giornalisti. Quando questa viene meno le ferite sono grandi e non c’è altro da fare che dire la verità ai lettori, chiedere scusa e iniziare a risalire la china per riguadagnare quella credibilità perduta”.

Dal 2013 la proprietà è passata in mano per 250 milioni di dollari a Jeff Bezos, che con Amazon ha rivoluzionato la vita dei consumatori. Per chi vuole presidiare ogni aspetto della loro vita, l’acquisto del Washington Post è un tassello nella sfida dell’universo della comunicazione.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 20:13