Il segno della sconfitta

La giustizia è da sempre il luogo ideale dove si scontrano i poteri forti, con una immagine mitologica, la mela fatta rotolare sul banchetto e su cui le tre divinità si avventarono con cupidigia. Il pomo della discordia continua a rotolare tra le mani dei governi e del fazionismo esasperato. E come avveniva allora per il popolo greco, anche oggi tra chi prende le decisioni e chi le subisce vi è un abisso, come tra l'Olimpo ed il mondo dei mortali. E' ciò che traspare dall'accorato e condiviso discorso di apertura dell'anno giudiziario del Presidente Giorgio Santacroce.

Una lucida fotografia di ciò che si trova dentro e fuori dal tema, ben sintetizzato nelle parole che sottolineano come “le riforme debbono essere concepite sollevandosi al di sopra della mischia, spostandosi dalla sovranità sulla legge alla sovranità della legge”. Così il presidente invita il governo ad un atto di coraggio, a superare la scomoda contrapposizione magistratura-politica rammentando che, il vero potere della politica, risiede tutto nel selezionare gli obiettivi del legislatore. Partendo dal processo civile, il sistema è palesemente obsoleto, appesantito dai tre gradi di giudizio e da una deflazione del contenzioso assolutamente inadeguata (vedi la mediazione ed il filtro in appello). La scomoda eredità del garantismo, tipico dell'ancien régime, viaggia su un binario ormai morto. Intanto si potrebbe pensare ad una soluzione che adotti il sistema della “doppia conforme”: nel caso in cui i due giudizi di merito siano di eguale portata, sbarrare la strada al terzo grado di legittimità.

Ancora, potrebbe essere preso in considerazione un primo grado secco, con ricorribilità per Cassazione solo per motivi di legittimità. Inoltre, pur non pensando di poter radicare nel territorio italico, un sistema troppo lontano dal nostro, come quello americano, perché non provare a gettare le fondamenta di un diritto preprocessuale, che si svolga sotto l'egida del giudice chiamato a garantire che le parti rispettino le norme, un giudice che sia deus ex machina dentro e fuori dal processo. A questo scopo, però, si dovrebbero affiancare degli strumenti sanzionatori ad hoc, come la comminazione di multe e addirittura l'incarcerazione per chi tenga un comportamento oltraggioso alla corte.

Il tutto condito da forme premiali per la parte che offre, la seria ed apprezzabile, opportunità di chiudere la materia del contendere. Insomma, le strade sono tutte percorribili e aperte, quello che manca è il polso duro, la determinazione di mettere mano ad un sistema in modo radicale, partendo dalla consapevolezza di dare il definitivo colpo di vanga alla idea oltranzista del garantismo puro e costruire una alternativa anche coraggiosa. Il processo dovrebbe rappresentare una extrema ratio, ciò che segue al fallimento della fase transattiva obbligata, fase che coinvolga l'intervento di tutti gli operatori giuridici, attribuendo un ruolo anche a quella categoria di “azzeccagarbugli”, che nel breve periodo potrebbero indossare degnamente le vesti dei veri deflattori del contenzioso.

Senza voler lanciare il sasso e nascondere la mano, semplicemente rinunciare a dare ragione a chi pure crede di ottenerla, ma solo dopo tre gradi di giudizio, e poter, invece, chiudere i giochi e mandare a casa i paciscenti con una mezza vittoria per ognuno e subito. Ma il vero nodo gordiano è il processo penale, dove il tempo sembra essersi fermato alla epocale riforma dell'88. La introduzione del sistema misto accusatorio avrebbe dovuto essere, scientemente, accompagnato dalla separazione delle carriere tra ufficio del pubblico ministero e magistratura giudicante. La romantica figura del giudice istruttore avrebbe dovuto lasciare il passo ad un ufficio del procuratore che avesse la discrezionalità misurata di scegliere se la strada tappezzata dalle prove disponibili, potesse condurre fino ad una condanna certa, misurata in termini di seria probabilità di vittoria.

Invece, anche allora, ci siamo fermati sull'uscio. Abbiamo lasciato intatto il sistema dell'obbligatorietà dell'azione penale, così facendo camminare il processo penale, eretto fino ad un certo punto e spaccato nel mezzo dal cosiddetto meccanismo misto. Anche qui le nobili intenzioni sono naufragate nel mare sconfinato del principio di certezza del diritto. In quella certezza della pronuncia del giudice che ha generato l'ipertrofia del contenzioso, corroso il rispetto effettivo di tempi ragionevoli di durata dei processi. Naturalmente il bilancio è tristemente noto. Anche qui il tempo del processo spinge il colpevole ad sedersi comodamente sulla poltrona dello spettatore e l'innocente a consumare un irragionevole supplizio.

Basterebbe rendere inappellabili le sentenze di assoluzione e considerare eventuali condotte riparatorie come cause di estinzione dei reato in casi lievi, per cominciare a respirare l'aria leggera del rinnovamento. Tuttavia, seppure a noi non fosse abbastanza chiaro tutto questo, basterebbero a fulminarci sulla strada per Damasco, i pronunciamenti della Corte Edu, che ci rammentano l'esistenza di una “Europa dei diritti”, che non è ferma alle enunciazioni dei principi, ma li applica con estremo rigore, fino alla inimmaginabile demolizione del giudicato penale (vedi la epocale sentenza Ercolano cui è seguita Ssuu: si può sostituire la pena all'ergastolo, inflitta ad esito del giudizio abbreviato, con quella a trent'anni di reclusione, modificando il giudicato con l'applicazione della legge più favorevole). Rischiamo,così, di ottenere una vittoria di Pirro, mantenendo intatti i tre gradi di giudizio e aspettando che questi siano demoliti dall'insindacabile giudizio della Corte Edu. L'apprezzabilità di una pronuncia, in termini di giustizia ed equità, non cammina sulle gambe del numero dei gradi, bensì sulla applicazione di una legge chiara ed accessibile a tutti.

L'insegnamento viene proprio dalla Cedu, un numero ridotto di articoli (6 e 7...) che, in un linguaggio semplice e lapidario definiscono i principi del giusto processo e di legalità e sono perfettamente in grado di stanare le illegittimità processuali e non di una pronuncia, anche del supremo consesso. Allora delle due l'una, o la nostra giustizia si è appiattita in queste lungaggini solo burocratiche (sicché impugnare diventa una clausola di stile!) o abbiamo perso lo spirito dei nostri padri, quello che ci ha fatto essere culla del diritto fino a tempi recenti. E' il momento di rinsavire e di entrare a gamba tesa nel problema: la giustizia non è cosa che appartenga solo alla magistratura ma è un terreno dove tutti si possono e si devono misurare: governo, parlamento e popolo.

Come è giusto che sia, il magistrato è chiamato ad applicare la legge, legittima o meno, al parlamento il compito di approvarla, al governo il potere di proporre le soluzioni, all'Europa di riconoscere la legittimità comunitaria del percorso intrapreso. Ma soprattutto al popolo la valutazione finale: quella di pensare che qualcosa sia finalmente cambiato!

 

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 15:09