Un giorno di follia al Tribunale di Messina

Un’ingiustizia è più facile accettarla dagli uomini che dalle istituzioni. Un uomo può violare dei diritti e, nonostante ciò, la collettività può comprenderlo, giustificarlo, ma, quando la violazione viene dalle istituzioni, con tutta la buona volontà, è difficile accettarla. In tal caso, il cittadino non riconosce neppure nessuna attenuante al fatto che, a concorrere alla violazione dei propri diritti, siano cause imputabili a più organi istituzionali. Se poi è il Tribunale, il luogo ove avviene la compressione o la lesione dei diritti, la ricaduta sul tessuto sociale è deleteria.

Chi perde fiducia nel giudice, o peggio ancora nello Stato, è un individuo a rischio di naufragio tra le mille sponde del malaffare e dell’anarchia. E, talvolta, è proprio il Tribunale, il luogo ove avviene la limitazione, la compressione fino alla violazione dei diritti, anche di rango costituzionale. Il Tribunale di Messina non è esente da tale rischio. Il Tribunale di Messina (Palazzo Piacentini, dal nome dell’arch. Marcello Piacentini che lo progettò) è un capolavoro architettonico, pensato e realizzato, tra l’inizio e la fine degli anni ‘20 (inaugurato nel 1928). Nel tempo ha svolto la propria funzione in maniera egregia, dando anche lustro alla città. Oggi, dopo tanti anni, ed una crescita esponenziale del contenzioso e del personale giudiziario, quella struttura non è più idonea alla propria funzione, e, nonostante, negli ultimi trent’anni, si sia tentato di riorganizzarla dal punto di vista logistico (scorporando e decentrando alcune sezioni, ad esempio quella del Tribunale Lavoro e dei Minori, sostenendone i relativi costi di locazione), il problema non è stato risolto.

Si è discusso, nelle sedi competenti, dell’individuazione o costruzione di un’altra struttura da adibire a Tribunale, giungendo sempre a scelte che non hanno incontrato il consenso unanime o che sono state osteggiate da interessi di parte. Le soluzioni considerate in questi anni sono tante. Il Tribunale è stato, idealmente, trasferito da Palazzo Piacentini (che sarebbe rimasto struttura di rappresentanza o sede esclusiva della Corte d’Appello) in giro per tutta la città: da un plesso scolastico nelle immediate vicinanze del Tribunale all’ex mercato ittico; poi, da una struttura costruita ex novo (divenuta motivo di lite giudiziaria) ad un piccolo “grattacielo” progettato in un’area antistante il Tribunale; ed ancora dall’ex Distretto Militare ad una struttura in disuso dell’Esercito Italiano; e, da ultimo, in un immobile dell’Opera Universitaria. Sta di fatto che il Tribunale è ancora lì, immobile, in tutto il suo splendore architettonico, mentre gli scontri e le contrapposizioni sterili e non risolutive continuano, ed i fondi, stanziati dal Governo per la realizzazione di un nuovo plesso giudiziario, andranno perduti. Su questa vicenda l’avvocatura messinese, all’inizio speranzosa, è diventata via, via, sarcastica e, ormai, giustamente demotivata.

Perché la verità è che, il “costo” di questo immobilismo ricade soprattutto sull’avvocatura messinese che, come gli impiegati del Tribunale di Messina, fruisce, “vive”, quotidianamente Palazzo Piacentini. Le lamentele e le denunce sulle condizioni lavorative e sull’inadeguatezza della struttura sono costanti. E, nonostante ciò, gli avvocati, i cancellieri, i magistrati, sono costretti a svolgere comunque la propria attività. L’avvocatura, data l’inefficienza (strutturale e organizzativa) di Palazzo Piacentini, rischia di incorre quotidianamente in errori nell’adempimento dell’incarico conferito, esponendosi di sovente a richieste risarcitorie da parte del proprio assistito. L’avvocato che svolge la propria attività prevalentemente nella struttura suddetta, è stoico.

Si, perché, far fronte a tutte le inefficienze di quel Tribunale, cercando, comunque, di garantire la difesa dell’assistito, è impresa ardua. Basti pensare che mancano le aule di udienza. Infatti, le udienze si svolgono nella stanza del magistrato che è di piccole dimensioni (pochi metri quadri) ed adatta allo studio delle pratiche, non ad accogliere la trattazione di in media cinquanta giudizi, con un numero di avvocati che sono almeno il doppio (senza considerare le parti, gli eventuali testimoni, i praticanti, ecc…). Lascio al lettore immaginare le condizioni nelle quali si opera. Poi, l’avvocato, è pure alle prese con un ipotetico (rispettato a fase alterne) orario di chiamata dei giudizi.

Questo porta il procuratore spesso ad “assalire” il magistrato per tentare di trattare rapidamente il processo, per poi spostarsi in una altra stanza (o plesso), da altro magistrato, dove dovrà affrontare la stessa orda di colleghi e di assoluta confusione. Il tutto senza aver a disposizione sufficienti punti di appoggio (scrivanie, tavoli…) dove poter verbalizzare con calma, scrivendo in maniera poi comprensibile per chi legge. Durante l’udienza, infatti, si vedono scene (pure simpatiche) di avvocati con il fascicolo di causa sottobraccio che verbalizzano sulla schiena del collega, poggiati sul termosifone o sulla stampante. Senza dire, che durante lo svolgimento dell’udienza, lo spazio materiale tra un avvocato ed un altro è talmente esiguo, che neppure la penna dalla giacca si può prendere (con aspetti di igiene e sicurezza sul lavoro approfondibili), ed il caldo è soffocante (d’estate e d’inverno). In tutto questo, i giudici chiedono, talvolta, una pausa per respirare e sospendono l’udienza.

E poi, come se tutto ciò non bastasse, prima dell’udienza, quando arrivi al Tribunale di Messina devi riuscire a trovare tre cose: quale giudice tiene effettivamente udienza quel giorno, per il giudizio che devi trattare; in quale stanza; ed il collega di controparte. Si perché al Tribunale di Messina vige il principio della turnazione (che definirei spesso random): - del Giudice al quale viene assegnato il giudizio che cambia in media quattro volte, prima di emettere la sentenza; - delle aule, per cui il giudice tizio, oggi, tiene udienza nell’aula A, domani nella B, e poi ancora nella A e poi nella C, e così via; - delle cancellerie (ubicazione uffici e personale). Un caos totale, nel quale l’avvocato è per forza di cose tenuto a collaborare fattivamente, armandosi di calma, umiltà e tenacia nell’interesse proprio e, più in generale, di tutti.

Ed infatti, a tal fine, l’avvocato svolge compiti non propri: redige di pugno il verbale di udienza (compito del cancelliere); ricerca i fascicoli in cancelleria e negli armadi e, dopo l’adempimento processuale (deposito atti, fotocopie, ecc.) li rimette al proprio posto; predispone le copie degli atti e dei documenti anche quando sarebbe compito dei cancellieri; su gentile richiesta del G.I., cerca i fascicoli di causa che spesso non si rinvengono quel giorno in udienza; e molto altro ancora. Una attività non di competenza dell’avvocato, che ormai, viene considerata quasi dovuta anche dai cancellieri che essendo meno di quelli necessari, lavorano in condizioni di forte stress e necessitano di collaborazione. Senza dire della ridicola affissione, fuori dalle aule di udienza, dell’elenco delle cause solo con l’indicazione del NRG (Numero di Ruolo Generale), senza il nome delle parti, in ossequio alla normativa sulla riservatezza.

E’ come lo struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia, dato che tutti i fascicoli di udienza sono lasciati, quasi sempre, su di un tavolo all’interno dell’aula, dove qualsiasi cittadino, può prenderne visione leggendone i nomi delle parti e, se proprio non è in buona fede, far scomparire il fascicolo o alcuni documenti a lui non grati. Così come gli armadi, non sempre chiusi a chiave, che contengono i fascicoli di causa con le varie date d’udienza, sono, in parte, fuori dalle cancellerie, nei corridoi del Tribunale, cosicché, chiunque, può sottrarre documenti, fare fotocopie, totalmente indisturbato. Quando si tentò di ovviare a questo “inconveniente”, facendo predisporre all’interessato una formale richiesta per la visione dei fascicoli, si è quasi bloccato il Tribunale, perché mancava il personale per svolgere quel compito. Inoltre, all’ingresso del Tribunale mancano sufficienti indicazioni sull’ubicazione dei vari uffici.

Il collega di altro distretto che, per sua malaugurata scelta, abbia deciso di venire personalmente a fare udienza, lo vedi, già, da lontano che è uno “straniero”, perché è come disperso nel deserto senza alcuna indicazione utile. Ma la massima iattura per l’avvocato che svolge la propria professione a Messina, è quando ricevere la telefonata, la sera prima dell’udienza, da parte del proprio assistito che candidamente ed ignaro di tutto, chiede di poter presenziare, l’indomani, in Tribunale. Ecco, che in quel caso, l’avvocato vacilla, perché sa che se dovesse non riuscire a convincere il cliente a restarsene a casa, dovrà vergognarsi di ciò che quello vedrà, perché il Tribunale di Messina, ove si amministra la giustizia in nome del popolo italiano, non è un fiore all’occhiello da mostrare con orgoglio, anzi, tutt’altro.

Ed in fondo l’agnello sacrificale, immolato alla inefficienza della giustizia, è il cliente, il cittadino, che subirà le inevitabili conseguenze di tutto ciò, in termini di errori giudiziari, di allungamento dei tempi del processo, di rischio di errori da parte dell’avvocato, dei cancellieri, del giudice, che in un contesto lavorativo come quello descritto, non possono oggettivamente lavorare. Infatti, proprio per questo, non è raro sentire a Palazzo Piacentini, così come penso in altri Tribunali d’Italia, cittadini che inveiscono contro tutto e tutti.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:23