Ragione economica e ragion democratica

L’Occidente con tutti i suoi odierni problemi può ancora ammantarsi, giustamente, di aver creato un valore culturale universale, e questo è la democrazia. Ovviamente vi è democrazia e democrazia. Le due principali forme sono quella che si richiama a valori liberali, basata sul bene comune, l’altra si sostanzia nell’egemonia di una certa maggioranza o élite. Per realizzare la prima occorre un popolarismo politico radicato nel pluralismo, nella partecipazione delle masse popolari all’interno dei meccanismi dello Stato. Ma quanto stato occorre? Ce ne serve poi così tanto?

Quando i partiti politici smettono di essere luoghi di programma e diventano centri di potere, il popolo o fa la rivoluzione, oppure smette di partecipare ai processi decisionali, vedendoli inutili, e lascia posto alle corporazioni economiche che, in tal modo, iniziano il “dialogo” con i partiti. Il proliferare dei governi di tradizione democratica ha pervaso l’occidente e gran parte del mondo, ma con essi non si è estesa la libertà e il rispetto dei diritti fondamentali dell’essere umano. Ad essi si è sostituito il diritto commerciale, la logica del profitto e l’etica del pragmatismo. Da molto tempo la parola d’ordine delle società è: “economia”. Tutto nasce attorno ad essa, e nulla si muove se non viene programmato in sua funzione. L’ottimizzazione e la produzione sono concepite secondo un’ottica economicista, che si scontra con le politiche ideologiche da poco abbandonate. Le generazioni di trentenni per i quali i genitori prevedevano un futuro se non di opulenza, perlomeno di serenità, debbono scontrarsi con un Welfare appesantito ed una repentina corsa a misure parallele, dalla previdenza alla sanità. La politica “dei principi” e quella “ideologica” non sono sopravvissute culturalmente alle “grandi narrazioni”, cadute assieme al muro di Berlino.

Lo Stato si fa sempre più timido in favore ad un’economica privatistica e un’industria controllata da potestà indirette nazionali e corporation internazionali, fattesi più aggressive dal processo globalizzativo. Il liberalismo, ai suoi inizi, avrebbe dovuto dare uno sprone all’anchilosata economia europea. Così non è stato. Stuart Mill ha avuto ampio successo nel panorama culturale del suo tempo ma, successivamente alla parentesi liberale, nasce tra il XIX e il XX secolo il Welfare State con la Fabian Society (Società fabiana, Partito laburista inglese), attraverso gli sforzi di Beatrice Webb. L’idea dei poveri come “vittime della società” impose la tassazione per tutti, incentivando i sussidi ai meno abbienti. Un tale modello riportò allo Stato gran parte dei suoi antichi poteri, per mezzo di un fisco pesante e di politiche interventiste. Si delineò così un modello di Stato che avrebbe voluto migliorare la vita degli uomini, in particolare quelli meno fortunati.

Queste idee politiche di ispirazione socialista e cristiana reinterpretarono i concetti di libertà, uguaglianza e fraternità, portando a identificare, ad esempio, l’uguaglianza delle opportunità (avere tutti le medesime possibilità) con l’uguaglianza dei risultati (ognuno ha diritto a tutto), confondendo l’eguaglianza con l’egualitarismo.

La fratellanza, così, divenne diritto di tutti alle stesse prerogative, dimenticando la condivisione delle responsabilità e dei doveri. Vennero inseguiti sogni impossibili, puntando tutto sull’intervento sussidiario a effetto immediato, piuttosto che su programmi di formazione di lungo periodo. Lo Stato si espande, si ingrandisce, si burocratizza e, di conseguenza, si appesantisce.

Verso al fine del XX secolo statisti quali Margareth Thatcher (1925-2013) e Ronald Reagan (1911-2004) ispirati dal filosofo Milton Friedman (1912-2006), capiscono il problema e cominciano a diminuire, attraverso interventi governativi, la pressione fiscale, restituendo nuove opportunità alla libera impresa. Si assisterà ad un breve ritorno al liberismo, benché alla fine prevarrà il welfarismo: gli statisti non riuscirono a convincere la società che uno Stato più snello è anche più dinamico. Nondimeno gli ingegneri sociali del XX secolo che crearono il Welfare State portarono grandi risultati. L’Europa moderna divenne un Continente dinamico, fornendo servizi migliori in particolare nell’Inghilterra vittoriana. Un tale modello protratto nel tempo si è rivelato vetusto e anacronistico, tuttavia alcuni Paesi si sono “ostinati” a volerlo applicare per non scontentare gli elettori. In taluni casi sono occorsi governi tecnici che facessero il lavoro ingrato per i politici, tramite manovre “violente” e impopolari. Qui più che mai il rapporto tra pluralismo e consenso, studiato da eminenti filosofi e politologi, si è rivelato conflittuale.

In Italia il sistema politico ha dovuto porre delle soluzioni drastiche e gravose, per non far fallire un sistema appesantito dalla spesa sociale elevata, dagli alti costi della politica e dalla cattiva gestione della cosa pubblica. Al contrario di statisti quali De Gasperi, Andreotti, Fanfani, Moro, i politici attuali non hanno compreso, probabilmente, che il capitalismo si sta evolvendo, richiamandoci lui stesso, per cos dire, all’esigenza di pensare ad un orizzonte temporale di interventi sociali a lungo periodo. Soluzioni a breve periodo hanno portato a vittorie immediate, portando però a ingenti danni nel lungo periodo. Il sistema sanitario e previdenziale sono i più evidenti campanelli d’allarme di una serie di errori strategici. Le pensioni, ad esempio, servono per sostenere i lavoratori nel giorno in cui, ormai vecchi e stanchi, non avranno più la forza di lavorare. Il passaggio da un sistema in cui lo Stato elargiva uno “stipendio-pensione” (retributivo) ad uno in cui il cittadino contribuisce alla sua pensione, è stato violento, portando a questi ultimi non più un’aspettativa dell’80% dell’ultimo stipendio, bensì a poco più del 40 per cento. Il nostro sistema previdenziale (Italia) è stato programmato affinché i giovani paghino le pensioni dei più anziani, ma un tale modello intergenerazionale è stato danneggiato dal crollo della natalità nazionale. A questo si è aggiunto il deficit degli stipendi e delle pensioni di alcuni settori, ad esempio quello statale, il cui istituto previdenziale è stato spesso in perdita. Per tali ragioni è stato necessario che l’Inps incorporasse, per decisione di Mario Monti, l’Inpdap, Inpdai, e altri fondi, affinché potesse colmare il buco causato dal deficit e continuare ad elargire le pensioni statali, quelle dei dirigenti d’azienda, assieme a quelli di altre categorie. Consideriamo che solo l’Inpdai, il fondo dirigenti d’azienda, aveva un disavanzo di 3,7 miliardi. Questo ha fatto si che l’Inps si facesse carico di tanti fardelli, evidenziando, nella gestione finanziaria del 2013, un saldo deficitario di oltre 9 miliardi di euro, ovvero la differenza fra circa 396 miliardi di euro d’entrate e circa 406 miliardi di euro di uscite. Consideriamo, inoltre, che la riforma Dini ha istituito un fondo di Gestione separata presso l’Inps finanziato con i contributi previdenziali obbligatori dei lavoratori assicurati, per avere una voce attiva di bilancio; eppure intere generazioni si trovano nell’impossibilità di godere di tutele assicurative, con la prospettiva di un futuro d’indigenza.

I lavoratori privati e a partita iva colmano il gravoso buco deficitario, togliendosi letteralmente il pane dalla bocca per darlo agli altri. Soltanto le partite iva contribuiscono con 80 miliardi di euro circa a compensare le pensioni dei lavoratori dipendenti pubblici e privati, soprattutto quelli statali. Quest’onere è inaccettabile se pensiamo alle prestazioni ricevute in cambio della forte tassazione fiscale.

La Gestione separata non è stata sufficiente per condurre le future generazioni ad una copertura pensionistica adeguata. Dovrà necessariamente nascere la cultura della previdenza complementare affinché questo vulnus si colmi. Come accade negli Stati Uniti è necessario pensare ad un accantonamento privato dei propri risparmi, in modo responsabile, a seconda del proprio modello di vita, del reddito e delle esigenze. È ovvio che questo non potrà mai avvenire se lo Stato continuerà a permettere la nascita e lo sviluppo di contratti di lavoro precari, il cui stipendio si aggira attorno agli 800 euro. I fondi pensione privati hanno la necessità di svilupparsi con contratti di lavoro forti e protetti. Le scelte sono due: tornare al vecchio modello previdenziale in cui lo Stato “toglieva” i contributi del lavoratore per accantonarli in vista della vecchiaia, o dare al lavoratore lo stipendio per intero e lasciare che lo amministri come crede, dandolo o no alle assicurazioni private e a fondi gestione, scelti personalmente. Non si può pretendere l’imposizione degli oneri di entrambi i modelli. L’Italia rischia così di non essere un “Paese per vecchi”, ma nemmeno per giovani.

La nostra, come ogni altra economia occidentale, registra un miglioramento del tenore di vita e così anche un’età media più alta. In Italia oggi abbiamo 1,7 milioni di ultra ottantenni, che diventeranno, ai ritmi attuali, 4 milioni nel 2050. Ciò significa che il cittadino vive e lavora di più, e si ammala anche. Tra il 2007 e il 2013 la spesa sanitaria pubblica è rimasta invariata, ma è cresciuta quella privata. La spesa pro-capite per la disabilità, in Italia, tra il 2003 e il 2011 è aumentata, passando da 20mila euro a circa 25mila. È evidente la necessità di un Welfare privato integrativo che deve però essere promosso dalla politica, tramite una filiera socio-sanitaria pubblica integrata con quella privata, stipendi più alti e una forte detassazione alle imprese e alle partite iva, in modo che il cittadino possa formare una vera e propria “cultura della previdenza”, non puntando soltanto a forme pensionistiche, ma a forme sussidiarie private legate alla possibilità di una futura non autosufficienza che non può, ora come ora, ricadere interamente sul sistema sanitario nazionale. Una direzione politica forte in tal senso è necessaria affinché non ci si ritrovi, in un prossimo futuro, all’interno di una landa desolata composta da cittadini indigenti e da corporation straniere che li sfruttino per un mercato del lavoro inumano.

Oggi l’Italia si muove politicamente ed economicamente all’interno dell’Unione Europea, e questo ci porta ad essere detentori di nuovi diritti e nuovi doveri. Alcuni Paesi quali la Grecia, la Spagna e la stessa Italia si sono trovati in difficoltà nel sostenere l’assetto geopolitico all’interno della politica e del mercato diretto da Strasburgo, criticandone sovente l’operato e l’inadeguatezza nel risolvere gli squilibri, soprattutto quelli economici, tra i membri dell’Unione Europea. Questi Paesi, spesso definiti come “poco virtuosi” hanno però beneficiato dell’afflusso di capitali, anche attraverso l’acquisto di titoli del debito pubblico o mediante investimenti nel settore edilizio; questo avrebbe potuto costituire una molla per il rilancio economico ma è confluito, per lo più, in una malcelata sicurezza che ha portato a non considerare seriamente riforme necessaria al miglioramento della competitività economica nazionale e, quindi, della produttività di questi Paesi che, dal 2003 al 2007 si sono progressivamente indebitati.

Serve quindi meno burocrazia, minori accise, in definitiva meno Stato, affinché la libertà possa imporsi di per sé, anche in economia e ritrovare i giusti equilibri, affinché si vivifichi l’opinione di Aldo Moro secondo cui lo Stato esiste per l’uomo e non l’uomo per lo Stato.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:26