Apolidia, la condizione  degli “invisibili”

Il termine apolidia viene per la prima volta all’attenzione delle cronache internazionali intorno agli anni Venti del secolo scorso a causa dell’incremento del numero dei rifugiati incapaci di attestare o di optare per una determinata nazionalità in seguito alla dissoluzione degli Imperi nazionali avvenuto dopo la Prima guerra mondiale. Nei decenni successivi la questione degli apolidi continuò a riproporsi, alimentata dai regimi autoritari, dall’antisemitismo e, infine, dallo scoppio della Seconda guerra mondiale con i massicci spostamenti di persone che essa comportò con le deportazioni, occupazioni e le fughe di massa.

Ma chi è l’apolide nello specifico e quali conseguenze comporta una simile condizione? Una prima definizione di apolide è rinvenibile nell’art. 1 della Convenzione del 1954 relativa allo status delle persone apolidi, secondo cui il termine “apolide” indica “una persona che nessuno Stato considera come suo cittadino nell’applicazione della sua legislazione”. Stando a tale definizione, la condizione dell’apolide appare in netto contrasto con l’articolo 15 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, emanata solo pochi anni prima dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948, la quale afferma diritto di ogni persona ad avere una cittadinanza.

Oggi, non solo una simile condizione perdura ma non viene neppure affrontata adeguatamente. Secondo le stime dell’UNHCR ci sono 12 milioni di apolidi, di cui 600mila vivono in Europa. Mentre governi e organizzazioni della società civile spesso non conoscono il problema, molti apolidi sono di fatto intrappolati ai margini della società senza che i loro diritti umani siano rispettati.  Inoltre, la condizione di apolide non intacca solo l’identità giuridica di una persona e i suoi diritti di cittadino, ma anche la sua sfera più intima: l’apolide non può sposarsi, non può registrare i propri figli all’anagrafe, né mandarli a scuola, può incontrare difficoltà ad accedere alle cure sanitarie e agli studi; non ha accesso all’assistenza sociale, né al mercato del lavoro; non ha libertà di movimento. Vive in una sorta di limbo giuridico e sociale dal quale non sa come uscire: trovandosi in una situazione di vulnerabilità ed assenza di diritti, l’apolide è esposto al rischio di essere vittima di lavoro nero, sfruttamento e traffico di esseri umani.

Per quanto riguarda l’Italia, gli apolidi sono 15mila, la maggior parte dei quali proviene dall’ex Jugoslavia in seguito ai conflitti che hanno dilaniato la regione. Di questi solo 606 persone hanno ottenuto il riconoscimento dello status di apolide che garantisce il possesso di documenti regolari, essendo la procedura attualmente vigente estremamente macchinosa. Ad essi potrebbero poi aggiungersi i bambini che stanno giungendo in Europa che non hanno potuto ottenere la cittadinanza dei propri genitori o del proprio paese di provenienza. Inoltre, non va dimenticato che l’apolidia continua a trasmettersi di padre e figlio, a causa delle leggi attualmente in vigore sulla cittadinanza basate sullo ius sanguinis, in base a cui possono godere della cittadinanza italiana solo i figli nati da almeno un genitore italiano oppure i bambini nati in Italia da genitori stranieri al solo compimento della maggiore età. Neanche la nuova legge sulla cittadinanza tiene conto di questa situazione, dal momento che essa si limita a ridurre i tempi di acquisizione della cittadinanza per i figli nati da genitori stranieri ma comunque in possesso di una cittadinanza.

Tuttavia, qualcosa finalmente sembra muoversi anche a livello politico: il 26 novembre 2015 la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, presieduta dal senatore Luigi Manconi recentemente insignito del Premio Ungari 2015, ha presentato il disegno di legge sul riconoscimento dello status di apolide, il cui obiettivo è quello di disporre di procedura semplice e accessibile per il riconoscimento di tale status, facilitando quindi l’identificazione delle persone apolidi presenti in Italia e assicurando loro il godimento dei diritti fondamentali e di una vita dignitosa.

Inoltre, lo scorso 28 gennaio ha avuto inizio una campagna di sensibilizzazione dal titolo “Non esisto” promossa dal Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir) con il sostegno della Open Society Foundations che la Lidu appoggia pienamente. Essa muove dalle difficoltà che incontrano le persone apolidi nella vita quotidiana, causate dall’impossibilità pratica di accedere a un riconoscimento legale della propria condizione, al fine di superare lo stallo in cui attualmente si trova il ddl promosso dalla Commissione per i diritti umani del Senato e giungere ad una legge che semplifichi le procedure per il riconoscimento dell’apolidia e garantisca durante l’intero iter una regolamentazione dei diritti della persona.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:56