Mandare un prete a Pannella: perché no?

Camillo Langone, in un recente articolo su “Il Foglio”, suggerisce di mandare un prete a Marco Pannella. Ottima idea: può essere utile, senza dubbio, per il prete. È una proposta da raccogliere, se si pensa che il più grande contributo del cristianesimo alla filosofia mondiale è stato la centralità del concetto della scelta; e tra i vari aspetti della drammaticità della scelta c’è, banalmente, quello di scegliere il male: è un problema che è stato posto dal cristianesimo, anche (ma non solo) in relazione al peccato, sia nel senso strettamente teologico, che nel suo significato più ampio di rottura del rapporto tra sé e l’universale.

Senza la scelta i miei atti sono ovviamente privi di qualsiasi valore morale, figurarsi di un valore religioso: che significato religioso avrebbe scegliere di tenere un bambino o di restare al fianco della donna della propria giovinezza (Prv 5:18), se l’aborto, il divorzio o magari l’adulterio fossero già severamente proibiti dalla legge degli uomini? Se il timore nascesse non dalla trascendenza, ma dall’immanenza? Pannella può vantare di aver trascorso un’intera vita a difendere la libertà di scelta individuale, prima ancora che collettiva, sulla base del principio di autodeterminazione. In quest’ottica vanno letti i “fiumi di aborti e divorzi” di cui chiacchiera Langone su “Il Foglio”: aborti e divorzi che non è stato Pannella a porre nel mondo, perché ci risulta esistessero già prima di lui, il quale ha posto invece il problema della scelta come il cristianesimo contemporaneo non ha avuto, purtroppo, il coraggio di fare.

Mentre era impegnato a riempire il vuoto lasciato da troppe chiese nella difesa della libertà di scelta del singolo, Pannella lottava contro l’ingiustizia, la fame, per le vite degli ultimi, ripudiando e contrastando ogni forma di violenza dell’uomo sull’uomo. Ma Pannella non lottava solo contro l’iniquità: no, lui ha trovato il tempo di lottare per la verità contro la menzogna e d’impegnarsi contro ogni forma di discriminazione, di razzismo e d’ipocrisia.

Quell’ipocrisia che oggi permea le chiese come la peste, e che Cristo additava come il lievito dei Farisei (Lc 12:1). E mentre Pannella lottava per la verità, al tempo stesso si assicurava che della verità non si facesse un uso cinico, come avvertiva Dietrich Bonhoeffer nel libro sull’etica che stava scrivendo prima di essere ucciso dalla follia nazista. Si è accontentato di questo, Marco Pannella? Niente affatto.

Perché se non fosse stato per lui, in quanti avrebbero toccato Caino (Gen 4:15)? Perché ha fatto dell’Agape uno strumento di lotta politica, contrapponendola alle pallottole degli anni di piombo. Perché anche in queste ore, sta lottando per il diritto alla conoscenza: quella conoscenza che determina l’autenticità della scelta, perché non posso scegliere se non so cosa sto scegliendo. Mentre Pannella, quindi, è impegnato ad andare perfino oltre la scelta, ripartendo dal frutto sul ramo (Gen 2:9), altri radicali, com’è tradizione, si dedicano con gli atti a quella rilevanza simbolica della Bibbia tanto cara a Paul Tillich.

Rita Bernardini, dal Venerdì santo al lunedì dell’Angelo, insieme ai compagni di “Amnistia, Giustizia e Libertà Abruzzi” visita tutte le carceri della regione in cui è candidata garante dei detenuti: una caratteristica che lascia a bocca aperta di Marco Pannella è proprio la capacità di mettere in relazione le Scritture con la quotidianità.

Il valore dell’insistenza dei radicali sulla banalità del male non si può comprendere leggendo unicamente Hannah Arendt, se non si comprende prima dove quest’ultima nasce. Il mondo pettegolo continua a ficcare il naso nella sua relazione con Martin Heidegger, ma nessuno ricorda mai che la Arendt non diede la tesi con lui, bensì con Karl Jaspers. Il concetto di banalità del male è impossibile da comprendere nella sua intera rilevanza se si cercano chiavi di lettura della Arendt unicamente in Heidegger: l’aspetto più spigoloso del pensiero di lei non deriva da lui, ma da Jaspers.

Ma tutto questo non è niente se si pensa al contributo che Pannella ha dato al concetto di spes contra spem. Nella Lettera ai Romani (4:18), il motto si riferisce ad Abramo e viene tradotto generalmente come “colui che sperò contro ogni speranza”. È celebre l’interpretazione di Søren Kierkegaard, per il quale Abramo rappresenta lo stadio religioso, in quanto è il singolo che esce dall’eticità per entrare in rapporto assoluto con l’Assoluto.

Se Kierkegaard esalta la drammaticità insita nel concetto, Pannella esalta invece la luminosità. Infatti ponendo la speranza stessa in relazione con l’Assoluto, a Pannella interessa liberare l’individuo non tanto dall’eticità quanto dalla contingenza. Un esempio è proprio in relazione all’amnistia: se i detenuti diventano vittime della “strage carceraria”, come lui stesso l’ha definita più volte, in un Paese che viola sistematicamente lo Stato di diritto ed è peraltro invaso da un forcaiolismo crescente, che speranza ho io di ottenere un provvedimento di clemenza? Nessuna.

Ma questo avviene perché sto ponendo la speranza in rapporto col finito. Se anziché rivolgere la mia speranza al particolare la rivolgo all’universale, la speranza è libera dal contingente che la rinchiudeva nel finito, non è più cioè una speranza che esiste in relazione a una determinata contingenza, ma una speranza che è in relazione al concetto assoluto di speranza: anziché avere speranza, devo essere speranza, sperare universalmente per liberare il particolare dalla sofferenza, sperare infinitamente per guarire il finito.

Posso io sperare in Dio senza sperare nell’Assoluto? Posso io sperare in Dio senza sperare nell’Essere? Posso io sperare in Dio senza essere, a mia volta, speranza? Oppure devo limitarmi ad averla in relazione alla contingenza? Non sarebbe una forma ottusa d’idolatria limitarmi a sperare che qualcosa accada, e che Dio me la conceda? Non devo piuttosto io stesso essere speranza in modo assoluto, indipendentemente dalla contingenza e dalla limitatezza della mia condizione esistenziale?

Non è forse l’esistenza a darmi l’angoscia, e l’angoscia il fondamento stesso della speranza? Come può la speranza essere “un’ancora”, secondo le parole di Papa Francesco, se quest’ancora poggia su un’esistenza finita, particolare, soggetta in qualunque momento a essere spazzata via? Non deve, la speranza, essere al di là di ogni limitazione, e io essere speranza a mia volta? Come sperò Abramo? Sperò nella contingenza?

Nella contingenza l’evidenza è tale: Abramo deve sacrificare il figlio (Gen 22:2), quindi il figlio morirà. Non c’è speranza. Ma Abramo ha “sperato oltre”, ed è stato speranza.

Andando con Pannella nelle carceri, con lui e con Rita Bernardini, si discende nell’eretico abisso di un cristianesimo che può fare a meno della fede, ma non delle opere; che cerca la giustificazione prima ancora di ammetterla; che fa servo l’arbitrio mentre ne estende oltre lo scandalo i confini della libertà. Marco Pannella è il terzo che gode mentre litigano Lutero ed Erasmo, portando l’amore in una mano e il sigaro nell’altra.

Non si sarà detto cristiano: ma lo hanno fatto le chiese che hanno appoggiato e finanziato i più sanguinosi regimi del Novecento, mentre Pannella digiunava per fermare quelli contemporanei e per impedire la ripetizione dei regimi passati. È cosa terribile, oggi, dirsi cristiani, per il rapporto che corre tra i Vangeli e gli atti nell’attualità: così tremenda che è quasi più cristiano non dirlo; così atroce che viene da fuggire dall’ossimoro quotidiano del cristianesimo intollerante; così spaventosa che basterebbe a malapena il coraggio per uscire di notte, insieme a Nicodemo (Gv 3:2; 19:39). Marco Pannella è uno cui non siamo degni di sciogliere i legacci dei sandali (Mc 1:7).

E qualunque cosa resterà del Partito Radicale, sarà certamente più facile sentire Dio in quel che ne resta, piuttosto che nell’attico di cardinal Bertone. Già, perché c’è gente come Pannella che è andata in giro senza bisaccia né due tuniche (Mt 10:9-10), rinunciando al finanziamento pubblico, mentre altri lo prendono con l’inganno, con la nota truffa dell’otto per mille. Ma di questi ha già detto tutto Fëdor Dostoevskij, ne “Il Grande Inquisitore”. Dostoevskij, che se avesse visto “Nessuno Tocchi Caino” avrebbe pianto e riscritto “I Demoni” da capo, nel vedere come la più atroce rappresentazione dell’entropia del male doveva cadere come tale, davanti alla nonviolenza.

Mandatecelo, un prete da Pannella, per carità. No, non un prete in carriera, né uno di quelli che vanno in televisione, o peggio: no, mandateci don Manuel Bueno. Nel racconto di Miguel De Unamuno il prete, considerato santo già in vita, confessa privatamente il suo segreto, angosciato ateismo, e la sua capacità di consolarsi solo consolando gli altri, anche se la consolazione che gli dà non è la sua.

Che bello sarebbe vedere don Manuel Bueno, per una volta soltanto, essere consolato!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:03