I Rom della Capitale fuori dalla videoarena

Pubblichiamo la seconda parte del testo pubblicato ieri di Camillo Maffia “I Rom della Capitale fuori dalla videoarena”

7. Il “superamento dei campi”

Tali problemi sono sistematicamente trascurati nel dibattito sul “superamento dei campi”, benché si tratti di realtà indissolubilmente legate alle problematiche d'inclusione che interessano la minoranza residente nei campi nomadi. Agli interessi su terreni e appalti si aggiungono forme più o meno odiose di speculazione sulle drammatiche condizioni in cui vivono i baraccati di etnia RSC. Gli ostacoli nell'avvio dei Tavoli d'inclusione e nell'implementazione della Strategia riguardano anche questi sistemi di corruzione paralleli, su cui è improbabile ipotizzare interventi incisivi per via della difficoltà di reperire testimonianze e accuse circoscritte, per via della paura che circola tra i Rom vittime di estorsioni, minacce, ricatti. Non a caso, non è risultato alcun aumento degli sgomberi in corrispondenza del Giubileo, come paventato da alcune associazioni ed esponenti politici, e com'era accaduto nel corso della gestione Rutelli, a dimostrazione del fatto che la prassi di allontanare le famiglie indigenti non si fonda più su prevedibili e discutibili dinamiche legate al “decoro urbano” e affonda invece le radici in contesti meno chiari. Ad esempio, si può notare come nel 2000 le comunità RSC accampate in prossimità del centro storico subissero interventi di sgombero per essere alloggiate in zone più periferiche, mentre in seguito all'annuncio del Giubileo attualmente in corso comunità residenti nel campo più isolato dal centro abitato, quello di Castel Romano, sono state improvvisamente sgomberate e costrette ad accamparsi in zone più centrali. Si arriva infine al paradosso per cui spesso le “politiche per i Rom” vanno a incidere su altri gruppi etnico-culturali, cittadini italiani inclusi, che abitano in insediamenti abusivi. Il cambiamento di nome sulle circolari da “nomadi” a “Rom, Sinti e Caminanti” ha ottenuto solo una separazione delle politiche per i “nomadi” (censimento e monitoraggio, che implica anche sgomberi e bonifiche), ad appannaggio delle forze dell'ordine, da quelle per i “Rom, Sinti e Caminanti” (gestione, manutenzione e interventi socio-educativi nei campi nomadi), soggetti alla tutela delle associazioni e delle cooperative sociali. E' fondamentale mettere a fuoco un problema, che non riguarda solo le politiche capitoline, ma anche quelle nazionali: per Rom s'intende l'abitante del campo nomadi, non l'appartenente a un popolo che conta in Italia circa 180.000 persone, di cui solo 40.000 (meno di un quarto) vivono nei campi nomadi. Si continua perciò ad alimentare una insana confusione tra baraccati e comunità RSC.

8. Le violenze delle forze dell'ordine

Alla violenza verbale di forze politiche come la Lega Nord, che nella persona del leader Matteo Salvini ha più volte espresso la volontà di “radere al suolo i campi Rom”, si aggiunge quella delle forze dell'ordine, in casi emblematici come le note violenze avvenute all'esterno del centro d'accoglienza di via Amarilli nell'aprile 2015. Nella vita dei Rom questo aspetto è fondamentale, come testimoniano regolarmente le proteste della rappresentanza RSC, in modo particolare quella che vive tuttora all'interno dei campi nomadi. Il connubio tra rifiuto della rappresentanza e violenza sui soggetti fragili, unito alla realtà segregante degli stessi campi, produce una marginalizzazione tale che un effettivo processo d'inclusione e di superamento dei campi nomadi richiederebbe non solo un rispetto letterale dei punti previsti dalla Strategia nazionale d'inclusione mai attuata, ma anche un cambiamento netto nelle competenze: non è chiaro, infatti, per quale ragione i campi nomadi siano di fatto sottoposti al controllo esclusivo di uno specifico nucleo della polizia municipale, peraltro il medesimo che ha fatto parlare di sé in relazione agli episodi di violenza su donne e minori. Spesso le relazioni sulla condizione della minoranza non tengono conto di questo elemento, che influenza invece più d'ogni altro il rapporto tra le comunità e le istituzioni, per via della percezione delle forze dell'ordine, associate fin dall'infanzia alla distruzione delle proprie dimore e a interventi violenti, anziché a quel senso di tutela e rassicurazione che altri cittadini provano nei confronti di chi è incaricato della loro sicurezza. E' utile sottolineare come neanche il rischio di una procedura d'infrazione da parte dell'UE abbia indotto la giunta Marino ad avviare l'implementazione della Strategia e a intervenire sul meccanismo emerso dalle indagini della Procura. Anzi, la giunta continuerà a mantenere il medesimo sistema. Basti pensare che meno di due mesi prima dello scandalo, a ottobre del 2014, nel corso di un intervento di “bonifica” in un campo tollerato, il vicecomandante della polizia municipale Antonio Di Maggio spruzzava dello spray al pepe negli occhi di un bambino di due anni, poi finito in ospedale, la cui madre ha sporto una denuncia penale che non ha avuto alcun seguito, come del resto le altre due presentate nell'arco di un solo anno (2013-2014) per fatti analoghi. In quello stesso sgombero, una donna al nono mese di gravidanza fu cacciata dalla sua abitazione, che è stata abbattuta, e lasciata in mezzo a una strada; due mesi dopo, il Comune stanziava 600.000 euro per la manutenzione dei campi.

9. Il Tavolo regionale

Nei fatti, l'unico ipotetico avvio delle procedure previste dalla Strategia mediante l'apertura dei Tavoli istituzionali è stato in violazione delle linee-guida stesse, presso la Regione Lazio, che ha convocato il Tavolo Regionale nel marzo 2015. Se da un lato è stata esclusa la rappresentanza RSC come componente istituzionale, dall'altro il Comune di Roma è entrato a far parte del Tavolo regionale senza aver istituito quello comunale, né avviato alcuna politica in attuazione della Strategia. L'istituzione del Tavolo regionale era viziata da diverse irregolarità. Innanzitutto, tra le varie componenti istituzionali previste dalla Strategia, dalla rappresentanza RSC all'associazionismo, sono state identificate unicamente le istituzioni stesse: Regione, Comuni, Prefettura. Il sistema trasparente e meritocratico previsto dal documento, che consentirebbe la partecipazione delle associazioni e degli enti accreditati per l'implementazione delle linee-guida, è venuto meno nella delibera regionale che, riconoscendo come componente istituzionale di fatto solo politici e prefettura, inevitabilmente consente agli stessi di convocare le associazioni a loro piacimento. Venendo meno inoltre la partecipazione delle comunità RSC tramite il dialogo con la rappresentanza come componente istituzionale, persiste un approccio alieno ai principi espressi dalla Strategia, mediante il quale solo le istituzioni e la prefettura sono dotate di un ruolo tale da consentire un effettivo potere decisionale sulle politiche d'inclusione della minoranza. L'aspetto più grave è però la partecipazione del Comune di Roma in assenza dell'avvio di buone prassi da parte dello stesso. Questo comporta pure difficoltà burocratiche, poiché quand'anche il Tavolo regionale elaborasse percorsi compatibili con le linee-guida della Strategia, tali percorsi dovrebbero poi inserirsi a livello comunale all'interno di organici estranei ai requisiti previsti dal documento; senza contare i problemi pratici per l'amministrazione capitolina insiti nell'avvio di nuove strategie emerse dal confronto in sede regionale senza aver preventivamente attuato percorsi compatibili nel proprio territorio di competenza.

10. I fondi europei: perché no?

In seguito all'operazione Mondo di Mezzo è possibile comprendere l'immobilismo che ha caratterizzato le politiche comunali in merito all'implementazione della Strategia. Non si spiega altrimenti, come sottolineato dai Radicali di Marco Pannella in una lettera al presidente della Regione Lazio con cui sollecitavano l'apertura del Tavolo, l'ostinazione nell'attingere al bilancio comunale in difficoltà rifiutando il quadro di sostegno finanziario europeo. La bocciatura delle politiche emergenziali in seguito agli esiti catastrofici e alle violazioni che comportano della normativa nazionale e transnazionale non ha lasciato il posto a politiche d'inclusione: da questo deriva il quadro di degrado, roghi tossici e abbandono in cui versano i campi nomadi. Ritardi come quello della Regione Lazio, di circa due anni, nella convocazione del Tavolo d'inclusione, spiegano sufficientemente la drammaticità della situazione. A questi ritardi si sono affiancati stanziamenti di fondi pubblici per la “gestione” dei campi, i cui effettivi esiti sono difficili da rintracciare, uniti ad annunci mai seguiti dai fatti e talvolta ai limiti della stravaganza (ricordiamo, ad esempio, la proposta dell'assessorato capitolino di utilizzare i Rom per la raccolta differenziata). Tali stanziamenti si sono aggirati nel solo 2013 intorno ai 24 milioni di euro; in questo contesto va inquadrata la pericolosità di affidarsi ulteriormente ai fondi comunali e il rifiuto di elaborare percorsi che consentano di accedere a quelli strutturali europei. Anche i progetti irrealizzati sono indicativi: ad esempio, nell'estate del 2014 si fa strada un piano per la costruzione di un mega-campo nomadi in località La Barbuta (dove peraltro ne esiste già uno costato circa 10 milioni di euro) finanziato da una multinazionale, al costo di gestione di 500.000 euro annui per 15 anni; tale gestione sarebbe stata appaltata alla cooperativa fondata e presieduta dal padre della presidente della Commissione politiche sociali di Roma Capitale. Un altro progetto non realizzato, la ristrutturazione del campo nomadi La Cesarina, sarebbe costato 2 milioni di euro: ad esso dobbiamo comunque gravi violazioni dei diritti umani, come il trasferimento dei Rom residenti dal campo al centro di raccolta “Best House Rom” di via Visso, sul quale è stata in seguito avviata un'istruttoria dall'Autorità nazionale anticorruzione.

11. Retrospettiva: come nascono i campi nomadi nella Capitale

Verso la fine degli anni Novanta un errato concetto di tutela consente la creazione di aree di sosta destinate a diventare spazi di segregazione: in questo periodo (1996), con l'ordinanza 80, il Comune comincia a distinguere tra campi tollerati, sottoposti pertanto a disciplina specifica e identificati come soluzione abitativa sia pur temporanea, e campi abusivi: una prima mappatura mostra una realtà di 51 insediamenti per 5.467 Rom censiti (il dato fu a suo tempo contestato dall'Opera Nomadi, le cui stime erano più alte). Tale identificazione del campo come soluzione abitativa a sua volta conduce il Comune ad acquistare o noleggiare terreni, dando vita così inevitabilmente a un giro d'interessi che riguarda inizialmente i proprietari terrieri, i quali possono ricevere fondi in base al numero di profughi che sono in grado di ospitare. Tossicità dei terreni, scarichi abusivi di rifiuti industriali e cospicui guadagni per le cooperative di gestione e manutenzione sono solo alcune delle inevitabili conseguenze della creazione dei campi nomadi, che si svilupperanno negli anni dei mandati successivi. Il 6 dicembre 2005 “Il Giornale” definisce un “giallo” il piano nomadi annunciato dal sindaco Veltroni nel 2003, che prevedeva 18 insediamenti regolari e una spesa di 3,5 milioni di euro, ma del quale consiglieri d'opposizione rivelano di non avere alcuna notizia. Negli stessi anni fa rumore lo scandalo del “lager degli immigrati”, un luogo in cui immigrati di origine rumena vivevano in condizioni disumane: le indagini hanno condotto all'arresto del gestore Cesare Galli per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina e sfruttamento della manodopera. Nell'area ancora sotto sequestro Veltroni individua l'ubicazione per il campo nomadi de La Cesarina e ne affida la gestione allo stesso Galli. Al passaggio di Cesare Galli da gestore del “lager degli immigrati” a gestore de La Cesarina si affianca il pagamento da parte dell'amministrazione dell'affitto del terreno alla holding vaticana Propaganda Fide, dato in concessione a Galli: secondo una nota di due consiglieri di AN, il Comune dal 2003 al 2007 stanzia 2.538.100 euro tra il canone e i servizi per 153 Rom sgomberati da un insediamento abusivo presso La Muratella il 27 agosto 2003. Questo dato è sufficiente a comprendere le logiche che hanno caratterizzato le politiche sugli sgomberi e i campi nomadi delle giunte successive, a cominciare da quella Alemanno che, in virtù della “emergenza nomadi” dichiarata dal governo, spenderà oltre 60 milioni di euro in appalti senza gara. In questo periodo avviene l'ampliamento del campo nomadi di Castel Romano, secondo gli inquirenti offerto da Buzzi ad Alemanno in seguito all'acquisto dei terreni.

12. La negazione della cultura

Esponenti del mondo culturale Rom italiano, a cominciare dal poeta e musicista di fama internazionale Santino Spinelli, per anni hanno denunciato come l'assenza di valorizzazione del patrimonio culturale Rom fosse legato all'esigenza di mantenere inalterati gli interessi sui campi nomadi. La battaglia contro quelle che ha definito finte tutele lo ha condotto ai margini della rappresentazione mediatica della minoranza anche all'interno dei rari spazi informativi rivolti alla rappresentanza RSC. Il caso di Santino Spinelli è emblematico, perché nel 2001 fu l'unico rappresentante Rom italiano al Parlamento europeo della International Romani Union. Difficilmente si può ritenere frutto di una casualità lo scarso spazio dedicato agli interventi dell'artista, soprattutto in relazione alla diffusione delle sue attività culturali e alla mole di articoli sulla “questione Rom” specialmente in seguito a “Mafia Capitale”, se si pensa che sin dalla nascita dei campi nomadi si è battuto contro il concetto dei Rom nomadi per cultura, definendo tali spazi l'emblema della segregazione razziale e della discriminazione. Il ruolo dell'informazione nella percezione della minoranza si rivela fondamentale e tenerne conto, come fa del resto la Strategia nazionale d'inclusione, è indispensabile per l'avvio di politiche d'inclusione corrette. Il concetto più diffuso presso i cittadini romani è che ai Rom piaccia vivere nei campi nomadi perché sono nomadi, e che si trovino per scelta in questa condizione: un superamento dei campi che non sia accompagnato da un corretto approccio informativo che rimuova questo infondato pregiudizio è pertanto impensabile. Tale rappresentazione del popolo Rom, dipinto come se avesse costantemente bisogno di una tutela specifica, ha di fatto aiutato gli interessi delle cooperative corrotte. Se si collegano il mancato coinvolgimento delle comunità RSC con quest'immagine deformata, unita al silenzio sulla cultura e alla mancanza di riconoscimento giuridico della minoranza, s'individuano facilmente le cause principali della esclusione sociale del gruppo e della diffusa diffidenza nei confronti dello stesso. Ai drammi della discriminazione, dell'esclusione e delle condizioni sociali e igienico-sanitarie dei campi nomadi (si ricorda che l'aspettativa di vita dei Rom è di dieci anni inferiore alla media nazionale) si aggiunge infatti quello di una lingua e di una cultura che s'impoveriscono di più ogni anno che passa: il fatto che si sia pensato a tutelare un presunto nomadismo e nessun passo sia stato intrapreso in direzione di una tutela del patrimonio linguistico-culturale fa riflettere su quali siano stati i reali obiettivi delle politiche nei confronti della minoranza.

 

Testo integrale della denuncia di Marco Pannella

On. Sig. Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma

Atto di denunzia

Il sottoscritto Giacinto Marco Pannella, nato a Teramo il 2 maggio 1930 ed elettivamente domiciliato in Teramo alla Via M. Capuani n. 95, presso lo studio dell’avv. Vincenzo di Nanna, espone quanto segue.

La decisione di accogliere e concentrare i cittadini d’etnia rom in quei luoghi di segregazione spaziale, abitativa e sociale, denominati “villaggi della solidarietà”, nasce nel 1994, come soluzione “provvisoria” assunta con ordinanze del Sindaco di Roma, nella forma dei provvedimenti “contingibili e urgenti” e con l’obiettivo, mai realizzato, di programmare una graduale serie d’interventi finalizzati a dare dignitosa e civile accoglienza ai nuclei di Rom e Sinti aventi i requisiti di legge e di cui si è accertata la presenza nel territorio comunale. (ordinanza n. 80/1996) Il Comune di Roma, tuttavia, non solo ha fallito tale obiettivo, ma, addirittura, condotto una politica marcatamente discriminatoria, alimentata da un sistema di malaffare, che sembra aver tratto rilevante profitto proprio dal mantenimento, a tempo indeterminato, del “sistema dei campi”, i cui elevatissimi costi pubblici potrebbero giustificarsi solo in una situazione realmente transitoria e non certo protratta per ben venti anni.

Una politica discriminatoria, non è inutile ricordarlo, che:

1) si pone in netto contrasto con gli obiettivi che lo stesso Governo Italiano ha fatto propri nel febbraio del 2012, mediante l’adozione della “Strategia Nazionale d’inclusione dei rom, sinti e dei camminanti” per l’attuazione della comunicazione della Commissione Europea n. 173/2011, in cui i campi Rom sono stati definiti condizione fisica d’isolamento che riduce la possibilità d’inclusione sociale ed economica della comunità RCS;

2) è stata realizzata mediante una condotta, con riferimento alla quale il Comitato Europeo dei Diritti Sociali (CEDS), il Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, il Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale, l’Alto Commissario OSCE per le minoranze nazionali, hanno già ripetutamente denunziato la violazione da parte dell’Italia del principio generale di non discriminazione;

3) è stata “condannata” dal Senato della Repubblica Italiana che, nel Rapporto conclusivo all’indagine sulla condizione di rom, sinti e camminanti, approvato il 9 febbraio 2011, ha riconosciuto l’inefficacia del “Piano Nomadi” sotto il profilo della sicurezza e dell’integrazione.

Detto “Piano”, non è inutile ricordarlo, è stato dichiarato illegittimo e annullato con sentenza (n. 60050) emessa dal Consiglio di Stato il 16 novembre 2011.

Il carattere palesemente discriminatorio della catastrofica gestione dei campi rom da parte di Roma Capitale, è stato peraltro accertato e formalmente riconosciuto, con ordinanza emessa dal Tribunale civile di Roma il 30 maggio 2015 (proc. n. 17035/2012 R.G.A.C.), in relazione alla specifica fattispecie dell’assegnazione di alloggi nel “campo attrezzato” della “Barbuta”.

Il Giudice del Tribunale di Roma, in effetti, all’esito di un’amplia e articolata attività istruttoria, dopo aver operato un’esauriente esposizione del quadro normativo vigente, ha accertato che detto “campo attrezzato” risulta:

1) non idoneo a ospitare un insediamento umano per incompatibilità con il d.lgs. n.96/05 e D.M. 20 aprile 2006, perché posto a ridosso dell’aeroporto di Ciampino;

2) ubicato in area periferica del Comune di Roma caratterizzata da strutturale mancanza della rete di

3)

4) servizi necessaria e propria delle aree destinate all’espansione urbanistica, quale conseguenza inevitabile dell’originaria e non mutata destinazione a “verde pubblico” della zona;

5) realizzato con moduli abitativi rappresentati da prefabbricati di circa 30 mq, conformi alla normativa tecnica tesa a garantire la salute e la sicurezza delle persone che utilizzano case mobili come alloggio temporaneo o stagionale, quali caravan, e, tuttavia, destinati a ospitare stabilmente estesi nuclei familiari;

6) gestito in maniera da produrre rilevanti limitazioni persino alla libertà personale e riservatezza degli “ospitati”, derivanti dal rigido regolamento del campo “Villaggio della solidarietà”, che comprime, in maniera inaccettabile, modalità e orari di visite.

Il Magistrato giunge persino ad affermare una compromissione e “ridimensionamento” della “natura realmente libera della permanenza”.

Definisce “condizionata” la “volontarietà” dell’accettazione degli “alloggi” del campo autorizzato da parte di chi viene sgomberato dai campi non autorizzati ovvero abusivi, atteso che… la soluzione offerta, e quanto meno statisticamente prevalente, in quanto a monte predeterminata, non risulta essere altra che quella del campo autorizzato.

Dunque, secondo il giudizio del Tribunale civile, è proprio il carattere non transitorio della “soluzione abitativa” offerta, ad aver determinato un deteriore, non transitorio, trattamento differenziato rispetto ad altri soggetti in situazione di disagio sociale anche abitativo, violando il diritto inviolabile di ogni persona – ex art. 2 Cost – come singolo e quale componente di una formazione sociale in cui si esprime la sua personalità, ad un’esistenza dignitosa, dal punto di vista delle esigenze primarie dei singoli ma anche di quelle di relazione, crescita, affermazione sociale, e dunque a un’esistenza innanzitutto libera da ogni forma di degrado, igienico, ambientale, familiare, sociale, culturale lavorativo ecc.

Un trattamento che, come si legge nel testo dell’ordinanza, appare riconducibile alla fattispecie della “discriminazione indirettaex art 2 comma 1 lett. b) del d.lgs. n. 215/03 – la quale ricorre “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica, in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”.

Il Giudice civile non ha tuttavia ritenuto di dover esprimere alcun giudizio diretto sulla possibile rilevanza penale della descritta condotta discriminatoria, valutazione di competenza dell’Ufficio della Procura della Repubblica, che vorrà dunque verificare se la scelta di mantenere immutato l’illegale e segregante sistema dei “campi attrezzati”, risponda a un preciso disegno criminoso, ideato da chi ha inteso speculare sul lucroso affare dell’assistenza ai rom.

L’accertata e dichiarata condotta di palese discriminazione razziale, protratta, si ripete, per quasi 20 anni, ben potrebbe allora assumere i connotati marcatamente dolosi della “premeditazione” e quindi integrare gli estremi del grave delitto di discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, previsto e punito dall’art. 3 della legge del 13 ottobre 1975 n. 654, così come modificato dalla Legge n. 205 del 25 giugno 1993.

Ma, come spesso accade, al malaffare delle speculazioni, si accompagna l’utile “diversivo” della propaganda razzista, come dimostrato dai numerosi (e costosi) esempi di “sfratti mediatici”, posti in essere dall’Amministrazione Comunale, in maniera spettacolare e violenta, per così alimentare, se non creare, un sentimento d’odio.

Accade allora che i nomadi “fuggiti” dai ghetti “autorizzati” siano raggiunti dalle ruspe che, con autentico furore, distruggono persino i pochi e miseri beni personali.

Un’importante prova del peculiare funzionamento del “sistema” campi rom, utile per l’accertamento del grave delitto di discriminazione razziale, è rappresentata dal film “Dragan aveva ragione”, un documentario - denunzia girato dai militanti radicali Giovanni Carbotti e Camillo Maffia all’interno dei campi rom nel periodo agosto – novembre 2013, la cui visione pone in rilievo ulteriori fatti di chiara rilevanza penale.

Il film (parte I, 40:51 – 51:51), in particolare, ritrae la cruda scena dello sgombero (distruzione) di un campo “non autorizzato” sito in via Salviati, quartiere Tor Sapienza, eseguito il 12 settembre 2013 (ordinanza a firma del Sindaco di Roma del 5 agosto 2013, n. 184, prot. n. 13159), in danno di alcuni rom d’origine serba, fuggiti da quello “autorizzato” di Castel Romano e immortala l’opera gratuitamente distruttiva delle ruspe, messe in azione in una zona neppur evacuata, tanto che si vedono bambini a brevissima distanza.

Ma, quali interessi, oltre a quello già evidenziato dell’”utile” opera di propaganda, si celano dietro l’esecuzione di uno “sgombero” costato al Comune di Roma “solo” 150.615 Euro, per l’azione di due ruspe e un camion?

E quale la “ragione” di tanta “insistenza” per riportare i rom fuggiti proprio nel ghetto, così come previsto nell’ordinanza di sgombero (n. 184 del 5 agosto 2013, Prot. 13159) a firma del Sindaco di Roma, in cui si legge che i “nomadi” saranno ricollocati presso il villaggio della Solidarietà Castel Romano?

Una risposta potrebbe forse rinvenirsi nell’attività d’indagine denominata “MONDO DI MEZZO”, considerato che Castel Romano era “gestito” proprio dalla cooperativa “ERICHES 29”, facente capo a tal Salvatore Buzzi, il quale, nel corso di una conversazione oggetto d’intercettazione, così come pubblicata dalla stampa (L’Espresso, ed. “on line” del 2 dicembre 2014) avrebbe dichiarato: noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili, li abbiamo fatti su zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero.

Tra i costi dello “sgombero – ricollocazione” figurano, in effetti, quelli di euro 11.761 (agosto 2013) ed euro 13.469 (ottobre 2013), previsti per la “ricollocazione” e corrisposti alla ditta Gruppo Marini s.r.l. per un intervento di stoccaggio e trasporto UMA (sic!), e alcuni autobus sono chiaramente visibili dietro alle ruspe e ad altri mezzi, nella parte del filmato relativa al primo tentativo di sgombero (12 agosto 2013), nelle sequenze iniziali e nel momento in cui Dragan, il protagonista del film, è intervistato da Andrea Billau, giornalista di Radio Radicale.

Non si fugge dal ghetto di Castel Romano, come ben compreso ed esposto, sia pure in relazione ad altra fattispecie, ma con acuta affermazione di principio, nel testo della citata ordinanza del Tribunale civile di Roma, che, giova ripeterlo, pone tra virgolette la volontarietà” dell’accettazione degli “alloggi” del campo autorizzato da parte di chi viene sgomberato dai campi non autorizzati ovvero abusivi, atteso che… la soluzione offerta, e quanto meno statisticamente prevalente, in quanto a monte predeterminata, non risulta essere altra che quella del campo autorizzato.

Il destino del fuggiasco Dragan e della sua comunità rom, era dunque già “predeterminato”.

Ma non è finita.

Il 19 settembre i rom non ancora “ricollocati” e accampati nei pressi del campo distrutto dalle ruspe, saranno sorpresi da un violento “raid” della polizia municipale, guidati dal vice comandante Antonio Di Maggio, per esser allontanati. (vd. parte II, 7:59 – 11:59).

Gli autori del film hanno peraltro ripreso, non solo la descritta scena di cruda e gratuita violenza delle operazioni di sgombero, ma anche un incendio di probabile matrice dolosa, raccolto testimonianze di violenze subite da donne e bambini, fotografato un contesto d’inaudito degrado sociale, descritto un ambiente gravemente inquinato, quale il campo “autorizzato” di via Salone, ove, tra le emissioni della fabbrica chimica “BASF” e quelle del deposito g.p.l., dei bambini giocano nei pressi di una discarica abusiva.

La visione del filmato, in particolare, evidenzia come le distese di rifiuti che circondano il campo siano composte, prevalentemente, da calcinacci, materiali edili, residui di macchinari industriali, fusti di dubbia provenienza e dal contenuto non identificabile, oggetti che certo non sono stati gettati dai rom, ma da chi ha inteso sfruttare la mancanza di controlli per smaltirli abusivamente.

Inoltre, a ridosso del campo e della discarica abusiva, è ubicata una rimessa di camion recanti sulle fiancate i loghi di supermercati (“Despar”, “Tuodì”): impiegati per il trasporto di generi alimentari? Dunque, una formidabile prova, un severo atto d’accusa della durata di un’ora e quarantadue minuti, la cui “shoccante” visione conduce lo spettatore in un viaggio da girone infernale.

Le immagini e le parole registrate, come si è detto, rappresentano già un atto di denunzia e la visione del film appare indispensabile per l’accertamento di fattispecie di sicura rilevanza penale. Esposti dunque i fatti, con il presente atto propone formale

denunzia

per il delitto di discriminazione, odio o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, previsto e punito dall’art. 3 della legge del 13 ottobre 1975 n. 654, così come modificato dalla Legge n. 205 del 25 giugno 1993 e per tutti i reati che si riterranno configurabili nei fatti narrati e documentati dal film “Dragan aveva ragione”.

Chiede sin d’ora, ai sensi dell’art. 408 c.p.p., d’esser preventivamente avvisato ove sia formulata richiesta di archiviazione e, a tal fine, dichiara di eleggere domicilio in Teramo, alla via M. Capuani n. 95, presso lo studio dell’avv. Vincenzo di Nanna.

In via istruttoria, produce i seguenti atti e documenti:

1) trascrizione di alcuni brani di testimonianze e significative conversazioni, tratte dal film “Dragan aveva ragione”;

2) copia (C.D.) del film “Dragan aveva ragione”;

Il presente atto è composto da n. 9 pagine compresa la presente.

Roma, lì 17 giugno 2015

Marco Pannella

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:49