Partito Radicale:   riflessione sulle beghe

La recente assemblea degli iscritti al Partito Radicale (Nonviolento, transnazionale e transpartito) ha reso evidente alcune novità. Nei pochi articoli in cui se n’è parlato, però, l’analisi è apparsa riduttiva, addirittura fuorviante. Tutto verterebbe sull’eredità del partito e sul suo futuro; da una parte i pannelliani e dall’altra i boniniani. Da una parte i puri e dall’altra quelli che vorrebbero dar corso a un partito con caratteristiche classiche. Niente di più falso. Il Fatto Quotidiano è forse stato il più onesto nel dire, all’inizio della disamina sulla zuffa radicale, che “le beghe di Torre Argentina, difficili da decifrare, se non per gli appassionati del genere si sono manifestate in modo fragoroso”.

Le classi dirigenti radicali sono sempre state diverse tra loro, nel metodo e nel merito. La generazione del transnazionale è differente da quella scaturita dall’esperienza italiana; a sua volta quella del Partito Radicale è profondamente diversa dall’esecutivo di Radicali Italiani. Differenze politiche, culturali e, direbbe Marco Pannella, soprattutto antropologiche. La storia del partito, con le sue diaspore e le inseminazioni radicali negli altri partiti, ne è chiara dimostrazione. Contaminazioni che, a volte, si sono talmente diluite da non riconoscere il radicale del tempo che fu. Non è questo il caso di Roberto Giachetti, che riconoscibile è e giustamente lo rivendica. Il candidato sindaco del Partito Democratico a Roma è solo apparentemente elemento di scontro politico tra radicali: la zuffa è, invece, sull’uso del simbolo elettorale da parte di quanti hanno scelto di appoggiarlo con una lista. Al suo interno, quel simbolo contiene la parola “radicali”.

Non è, quindi, difficile capire che “le beghe di Torre Argentina” rimandano a legittime e differenti interpretazioni di antiche battaglie. L’elemento di novità dell’assemblea degli iscritti, alla fin fine, è solo uno: è la prima volta che in una riunione del Partito Radicale, Pannella è assente. Le differenze tra le classi dirigenti radicali sono venute a galla. Non è la prima volta, anzi, è sempre stato così. Solo che questa volta è mancata la sintesi di Pannella, quando nel bene o nel male egli si assumeva oneri e onori di responsabilità e decisioni, a volte di difficile digestione, ma sempre azzeccate, anche quando in prima battuta apparivano strane e fallimentari. Il Partito Radicale non è ideologico, è all’opposto un partito pragmatico. Non rimanda ad un pomposo manifesto di idee, ma alla quotidiana teoria della prassi. In assenza dei testi sacri, le beghe vengono a galla. È normale e tra i radicali è metodo.

L’uso di un simbolo elettorale con la parola “radicali” ne è la prova. L’analisi radicale si è sempre mantenuta fedele ad un particolare algoritmo: le condizioni elettorali del partito sono sottoposte alla verifica della praticabilità politica all’interno di un regime. Una verifica necessaria sulle condizioni di democrazia, di alternanza e di informazione. Il congresso di Bologna del 1988 fu chiaro nell’esprimere la possibilità di presentare liste radicali in un contesto elettorale nazionale. E lo stesso partito transnazionale ha sottoposto la praticabilità elettorale alla nascita del disegno del 1985 di Altiero Spinelli per gli Stati Uniti d’Europa. Le varie liste presentate negli ultimi anni, dalla lista Pannella a quella Pannella-Bonino, fino all’esperienza della Rosa nel Pugno e della lista Amnistia, Giustizia e Libertà, sono state considerate come elemento unitario di lotta politica. La biodegrabilità dei simboli radicali è la parola chiave per capire l’algoritmo.

Le differenze politiche tra le classi dirigenti radicali sono solo uno spunto per meglio comprendere l’accenno sulla biodegradabilità dei simboli. L’uso dei simboli elettorali è oggetto oggi di differenti interpretazioni della stessa lotta politica, lontani anni luce l’una dall’altra, ma legittime entrambi. In assenza di Pannella, le rivendicazioni fioccheranno. Quando Josip Broz Tito smise di occuparsi della Jugoslavia, le rivendicazioni nazionali iniziarono a fiorire fino a sfociare nelle sanguinose guerre civili tra Slovenia, Croazia, Bosnia e Serbia. La Jugoslavia cessò di esistere. È un paradosso, ma a volte è proprio utilizzando l’assurdo che si comprendono le beghe difficili da interpretare. Con le necessarie diversità il rischio per i radicali è di dividersi in croati, bosniaci e sloveni. Il fattore importante sarà evitare la guerra e, soprattutto, di trovarsi costretti nel ruolo della Serbia.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:48