Un aforisma, un commento

“La cosiddetta anti-politica è un luogo comune senza fondamento. In realtà gli italiani sono sempre più attenti agli uomini politici e alle loro dichiarazioni. Dei redditi”.

In merito alla soluzione da trovare a fronte di una crisi economica e sociale, la regola aurea delle ideologie di sinistra rimane invariabilmente la stessa da secoli: togliere a chi è ricco per dare a chi è povero. Col risultato che, alla fine, la ricchezza collettiva, lungi dal rimanere intatta, subirebbe un progressivo deterioramento poiché nessuno amerebbe darsi da fare per poi consegnare ad altri o allo Stato due terzi di quel che guadagna grazie al proprio lavoro. In questo quadro desolante si inserisce, in Italia, la caccia ai nuovi untori, che non sono solo i capitalisti ma chiunque – con la singolare esclusione, però, dei personaggi dello spettacolo o dello sport – goda di vitalizi, emolumenti o pensioni d’oro. Il nuovo odio di classe, abilmente fomentato dai movimenti e mezzi di comunicazione di massa che lo cavalcano, invece di chiedere maggiore benessere per tutti, attraverso lo sviluppo dell’economia, si esalta all’idea di rendere poveri anche i benestanti. La massima soddisfazione cui si aspira, insomma, non è tanto legata alla possibilità che i redditi bassi aumentino, quanto all’opportunità che quelli alti diminuiscano. A tutto questo si dà il nome di “giustizia sociale”.

In questo quadro, gli emolumenti degli uomini politici sono al centro dello scandalo. Per quasi mezzo secolo i deputati e i senatori in Italia, ma anche negli altri Paesi europei, hanno goduto di stipendi più che dignitosi e di altri privilegi economici senza che nessuno protestasse. Ma l’assenza di proteste non era, evidentemente, dovuta al riconoscimento del valore che il ruolo di parlamentare implica, o dovrebbe implicare. La vera ragione del disinteresse per i redditi dei nostri legislatori consisteva nel fatto che anche il benessere collettivo, dalla fine della guerra, era andato aumentando e, dunque, gli elevati emolumenti dei parlamentari non apparivano come uno schiaffo o addirittura un furto alla ricchezza collettiva.

Ora, con la crisi che stenta a risolversi e la povertà galoppante, lo sdegno emerge in tutta la sua virulenza. Ma, affrontata con i forconi, la questione è decisamente destinata a peggiorare, nel senso che, se si auspicano migliori uomini politici, non è certo con la riduzione dei loro compensi che si otterranno. Mettiamoci nei panni di un bravo professionista che venisse invitato da un partito a candidarsi. Perché mai dovrebbe accettare se, per quattro o magari otto anni, egli dovesse lasciare la propria redditizia professione ricevendo dallo Stato un compenso non più alto di quello della sua segretaria? Va da sé che la politica è “servizio” per la comunità e non un investimento economico. Tuttavia è altrettanto vero che l’attività politica, se fatta con onestà, comporta l’assunzione di responsabilità pubbliche e stili di vita che, per alcuni anni, distolgono dalla vita lavorativa privata generando, a fine mandato, un vuoto potenzialmente dannoso. Per questo in alcuni Paesi come la Francia è previsto un assegno provvisorio di reinserimento nel mondo del lavoro.

È sicuro che uno stipendio del parlamentare molto elevato fornisce forte motivazione a candidarsi a chi, nella vita privata, ha un reddito tre o quattro volte inferiore, ma uno stipendio basso ha altrettanta forza nel dissuadere chiunque abbia un reddito tre o quattro volte superiore. Dobbiamo decidere se vogliamo una classe politica che, a parità di onestà personale, pensi solo al bene comune a costo di rimetterci di tasca propria oppure colta e competente. Poiché la competenza costa, in qualsiasi attività umana, appare corretto ritenere che qualche forma di correlazione fra il reddito privato e quello pubblico non debba essere del tutto trascurata.

Aggiornato il 06 aprile 2017 alle ore 17:20