A Milano la “Praxis”, a Roma Casaleggio jr?

Grazie a Claudio Cerasa, valoroso direttore de “Il Foglio”, il recente dibattito pubblico milanese fra Stefano Parisi e Beppe Sala ci ha definitivamente consegnato il doppio modello di sindaco di grande città destinato a incidere fortemente sulla politica nazionale. Con una premessa, che è un’osservazione per dir così linguistica riguardante la narrazione di entrambi. Non si devono arrabbiare i due manager se, nel cuore di una discussione mai sopra le righe, ci è parso di intravedere nel touchscreen lo spot del mitico Roberto Carlino, quello dell’“Immobildream”, che “Non vende sogni ma solide realtà!”. Per dire, cioè, delle modalità comunicative dei due manager che negli anni Ottanta e Novanta sarebbero stati bersagliati dagli aculei satirici di un Antonio Albanese perché afflitti dal morbo economicistico dei “bocconiani”, categoria eletta, distinta e distante in virtù dell’uso frequente dei termini inglesi indicativi, essenzialmente, della superiorità tecnocratica rispetto al resto, cioè ai sogni (di cui c’è sempre bisogno).

Che dire del fascinoso a volte misterico sound di parole come spending review, take off, deficit spending, Tobin tax, high tech, e-commerce, software finanziario, start up, wi-fi global, megatrend, spread, venture capitalist, business as usual, salary partner, fundraising private equity, moral suasion, team board, staff, bond. Già, che cosa aggiungere al vocabolario, della new economy che contagia stupendoci, che ci lascia a volte sospesi fra la barriera linguista specializzata e la contemporanea elevazione al cielo degli addetti ai lavori? Eppure, quel “non vendiamo sogni ma solide realtà” risuona nelle orecchie portando con sé l’eco lontana del “qui si lavora, non si fa politica!”, detto senza offesa ai due top manager che non sappiamo ancora se ringraziare o criticare per via di una campagna elettorale ambrosiana radicalmente diversa dalle altre; così placida e tranquilla, così discorsiva e con pochissimi manifesti, rari poster, miseri facsimile. Qualcuno aggiunge: un’elezione piatta se non vagamente scialba. Altri hanno addirittura messo in dubbio se si voti davvero in città, e quando. Ma forse scherzavano...

Ma insomma, che pretendiamo da due top manager di chiarissima fama in gara per la poltrona di Palazzo Marino? Hanno comunque e sempre parlato in nome e per conto del tradizionale pragmatismo di problemi da risolvere, di progetti in cantiere, di programmi da realizzare; e l’hanno sempre fatto con cognizione di causa, con competenza, con serietà e con la professionalità, appunto, di chi non vende sogni ma solide realtà; questo la dice lunga su altre elezioni in altre città, magari a Roma come diremo fra poco. Infine, anche nell’incontro - giammai scontro - fra i due concorrenti (uno milanese della Brianza e l’altro romano di Milano) le differenze sono emerse, e infine la politica ha fatto aggio sul florilegio fascinoso dell’esotismo terminologico, e sulle puntigliosità programmatiche. È infatti la politica che fa la differenza, non solo o non tanto perché, quasi sempre, il problema è politico e non tecnico- amministrativo, quanto, piuttosto, perché è la pratica e la conoscenza della politica che fa la differenza.

Ed è in questo che Parisi, delle cui radici riformiste si dichiara sempre orgoglioso, ci è parso una spanna sopra l’avversario, nel senso di una più solida convinzione delle proposte e di una maggiore consapevolezza nelle risposte alla complessità di problematiche che, anche in una Milano tutto sommato serena, mette al primo posto il supertema della sicurezza, della paura e dell’immigrazione. Sullo sfondo il grande vuoto della società contemporanea, ancora più ampio in una grande metropoli con quell’infinita contiguità di solitudini.

E a Roma, quid novi? Certo che a seguire la conferenza stampa di Silvio Berlusconi insieme al suo pupillo Alfio Marchini uno di Milano come noi viene colto da un piccolo tornado di impulsi, non sempre ma pur sempre, riflessivi. Fra cui e in apparenza, primeggia la visibilissima frammentazione del centro destra al punto da domandarci se esista ancora un’attualità nominalistico-politica in questa formula. Vista cioè da lontano, le divaricazioni impresse all’interno di un’alleanza, ormai ex, che aveva le carte in regola per dare filo da torcere alla vistosa vuotezza dei pentastellati, sta rischiando di accentuarsi, cosicché la definizione di “ex” all’alleanza citata, sembra la più indicata. Non solo o non tanto per la dislocazione dei componenti, ma per l’ampiezza progressiva delle distanze prodotte dagli obblighi elettoralistici, fra cui spicca, ultima ma non per ultima, la proposta di Giorgia Meloni di una via per Giorgio Almirante. Più che un’idea propositiva, peraltro di quasi impossibile accoglienza politica, sembra una provocazione bella e buona all’interno della polverizzazione della destra per sottrarre qualche granello all’avversario interno. Insomma e per dirla tutta: cui prodest?

Il fatto è che Virginia Raggi, sia pure mediata dai mass media per noi del Nord, appare l’esatto rovescio delle due candidature milanesi. Nate e cresciute queste sia in primarie complicate che da accordi fra alleati non facili ma ora impegnati all’unisono; quella della Raggi, al contrario, uscita dai salotti computerizzati e padronali di Casaleggio jr benedetto da Beppe Grillo. È la legge del web, la regola della democrazia dell’uno vale uno. Ma davvero? Dalla Raggi non siamo ancora riusciti a carpire una proposta concreta, una ragionata programmazione di interventi, una seria gerarchia degli stessi dei quali Roma, che amiamo profondamente, ha assoluto bisogno. Il leitmotiv delle campagne del M5S è riassumibile nella sloganistica del noi siamo diversi, noi siamo onesti, noi siamo i nuovi, solo noi possiamo cambiare Roma. Ma va là. “Vi meritate Sordi” gridava un indignato Nanni Moretti. Non è che, adesso, vi meritate Casaleggio jr? Che non solo non vende sogni, men che meno solide realtà.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:56